Raconter la pandémie

L’accidente e il sistema. Forme
di narrazione dell’epidemia

Guido Ferraro
Università di Torino

Publié en ligne le 4 mars 2021
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2021n1.54160
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Premesse

Presento qui riflessioni inevitabilmente parziali e provvisorie su un fenomeno molto ampio, complesso, e ancora in pieno svolgimento. Senza ambire a una sistemazione definitiva, vorrei porre in evidenza alcune direzioni d’analisi, sottolineando così la rilevanza di concetti e strumenti che la nostra disciplina può mettere a disposizione ; si tratta, in primo luogo, di rivendicare alla semiotica un ruolo centrale nell’analisi delle più rilevanti dinamiche socio-culturali. Sono inoltre convinto che comprendere meglio ciò che ci accade intorno e affinare i nostri strumenti teorici siano le due facce dello stesso percorso di crescita scientifica.

L’articolo è organizzato in questo modo : dopo alcune notazioni iniziali, provo a tratteggiare l’arco d’evoluzione dei modi in cui in questi mesi l’epidemia è stata tradotta in racconto ; prendo poi più specificamente in esame due aspetti decisivi : i tipi di sapere coinvolti e il ruolo dell’accidentalità attribuita all’esplosione della pandemia. Su tale base, cerco infine di mostrare come, nei discorsi diffusi, si possa rilevare un processo di progressiva narrativizzazione dei fatti, a partire da una sorta di confusa illeggibilità fino a una sistemazione in modelli di lettura complessivi. Di tali modelli propongo infine una possibile classificazione organizzata, secondo uno schema che in certo modo richiama quello ben noto a suo tempo proposto da Jean-Marie Floch1.

1 J.-M. Floch, “La génération d’un espace commercial”, Actes Sémiotiques-Documents, IX, 1987.

Un’ultima avvertenza : per quanto si tratti di un fenomeno di dimensioni mondiali, l’andamento dell’epidemia e i modi della sua lettura sono stati in parte diversi a seconda dei vari paesi. Il mio riferimento è in primo luogo alla vicenda italiana, ma ho seguito anche la stampa internazionale e le configurazioni che gli eventi hanno assunto in altri paesi, e di questa dimensione più ampia cercherò di tener conto. Innanzi tutto, però, sottolineo due cose che mi hanno colpito, fin dalle prime fasi di questa vicenda. La prima è il peso straordinario di quello che diremmo un “non-sapere”, la seconda è la singolare tendenza a rimarcare da subito che questo sarebbe stato un evento epocale, tale da segnare un irreversibile cambiamento — di questo secondo aspetto parlerò nel paragrafo seguente.

L’oscurità su ciò che avevamo di fronte era certo giustificata all’inizio : la malattia era nuova, imprevista, sconosciuta, anomala. Del virus non si conosce tuttora né tempo né modo d’origine (naturale o controllata in laboratorio ?), sono fortemente discusse le terapie da impiegare, l’efficacia dei vaccini, l’effettivo ordine di grandezza dei contagiati, degli ammalati e delle vittime (che secondo alcuni sarebbero molte di meno, secondo altri molte di più). Ne deriva un mutamento importante in termini di rappresentazione del sapere e un impressionante crollo di fiducia nelle capacità della scienza di cogliere il reale ; l’idea che non esistano fonti sostanzialmente affidabili ha aperto la via, per un pubblico di dimensioni senza precedenti, a una forma di sapere che segue mille percorsi, assumendo un modello non a caso a sua volta virale della comunicazione.

 

C’è in proposito da sottolineare, per capire le osservazioni che seguiranno, che i virus non costituiscono solo un’entità scientifica ma anche una categoria concettuale che ha un posto importante nel nostro immaginario, sul quale esercita un’evidente fascinazione2. Entità invisibili e al tempo stesso onnipresenti, i virus portano all’estremo il principio di non-classificabilità, non appartenendo né al regno degli esseri viventi né a quello dei non-viventi, tanto da aver portato gli studiosi a escluderli dai normali sistemi tassonomici, e a dubitare conseguentemente della stessa possibilità di una definizione del “vivente”. In effetti nulla avvicina questi esseri a quello che pensiamo come essere vivente : non hanno metabolismo né struttura cellulare, non consumano energia, non si nutrono o respirano, non hanno organi di movimento né di riproduzione. Esseri dunque che diremmo né vivi né non-vivi, si collocano effettivamente ai limiti del pensabile — come non ricordare in proposito l’ormai classica connessione proposta da Mary Douglas tra i concetti di contagio / contaminazione e ciò che viola le nostre abituali classificazioni3 ? Pur trattandosi di materiale biologico, i virus ci si presentano come oggetti inanimati ; pur non avendo la capacità di riprodursi, hanno quella di fabbricare copie di loro stessi costruendo parti staccate e poi montandole insieme, capacità che il nostro immaginario lega a forme avanzate di robot. Ma ciò che è forse più significativo è che i virus sono tanto letali quanto inconsapevoli e privi di volontà : non si spostano ma vengono trasportati, non hanno identità stabile ma trasferiscono materiale genetico da un essere vivente ad un altro. I virus insomma transitano, attraversano, distruggono ma senza possedere alcuna qualificazione agentiva : sono perfetti per figurativizzare l’idea di un male inteso come impersonale processo di diffusione meccanica non programmata, priva di volontà, progetto o centro d’origine. E diremmo allora che non a caso i virus sono penetrati nel nostro immaginario nel momento in cui ne stava uscendo l’idea tradizionale di un Destinante individuabile e forte ; il Novecento ha elaborato l’idea di un mondo che non dipende da progetti consapevoli, ove una perversa forza di controllo e di dominio è inglobata nella “logica delle cose” (le regole dell’economia innanzi tutto). L’idea di avere a che fare con qualcosa di oscuro e indefinito, di cui è ignota la provenienza e da cui non sappiamo come difenderci, è dunque parte di un disegno narrativo nascosto nelle profondità del nostro pensiero diffuso.

2 V. in proposito il mio articolo “Generazione dei testi e irresponsabilità d’enunciazione. Da La Jetée a Twelve Monkeys”, Lexia, 25-26, 2016, pp. 307-326.







3 Purity and Danger, Harmondwsworth, Penguin, 1970.

1. Eventi locali o mutamento di sistema ?

La seconda cosa che ha colpito (tanto me quanto, ho constatato, altre persone) è che fin dall’inizio, prima ancora che si potesse appurare l’incidenza effettiva dell’epidemia, da molte parti è stato detto che questo sarebbe stato, pur in modi ancora non definiti, un evento epocale — senza che fosse chiara la ragione per escludere l’ipotesi di un evento comunque transitorio, passato il quale il mondo avrebbe potuto tornare all’ordine di prima. Notiamo però che queste premature visioni di una “grande trasformazione” erano soprattutto concepite in termini di mutamenti che investissero non tanto l’ordine fattuale del mondo quanto il modo di concepirlo, dunque le categorie tramite le quali organizzarne la rappresentazione — cosa molto interessante dal punto di vista semiotico.

 

Tale tendenza si coniuga con riferimenti — significativi e non meno sorprendenti — al concetto di “normalità” : si dice che quello che pensavamo come “normale” non ci apparirà mai più come tale ; si pensa dunque in termini di trasformazione di sistema categoriale e non di fatti. Ad esempio, il numero di aprile 2020 della rivista italiana MicroMega (rappresentativa di una certa sinistra intellettuale) è uscito con il significativo titolo Dopo il virus un mondo nuovo ? In particolare, l’articolo ivi pubblicato a firma di Denise Celentano (studiosa che all’università di Montreal si occupa dei rapporti tra economia ed etica) sostiene questo concetto chiave : “La pandemia sta rendendo più visibile quello che era già davanti ai nostri occhi ma che non vedevamo, anzi che pensavamo fosse normale quando normale non è”. Lo stato di emergenza, spiega, fa venire alla luce tensioni sociali e diseguaglianze economiche, distorte gerarchie di rilevanza nella divisione sociale del lavoro e altri fenomeni che non erano percepiti nello stato di normalità. La situazione attuale porterebbe dunque alla luce il valore reale di certi fatti sociali : applicazione del meccanismo semiotico per cui gli eventi tendono non a trasformare una situazione, bensì a rivelarne la natura nascosta (meccanismo affine a quello che io lego al regime narrativo posizionale, una variante del modello canonico4).

4 In Teorie della narrazione (Roma, Carocci, 2015, pp. 85-93) rilevo che le fasi dello schema di Propp, come del modello canonico di Greimas, possono essere sottoposte, a livello testuale, a forme di scorporazione o accentuazione, in chiave di strategie comunicative, ad esempio in ambito pubblicitario. Distinguo su questa base quattro regimi narrativi : causale, posizionale, prospettico e multiprospettico.

Altro esempio è quello di un articolo pubblicato sul Guardian del 7 aprile 2020, a firma di Rebecca Solnit, studiosa delle conseguenze culturali di eventi di natura catastrofica. Il senso dell’articolo è sintetizzato nel titolo : The impossible has already happened : what coronavirus can teach us about hope. Trattandosi di un testo piuttosto lungo, ne riporto qui alcuni frammenti emblematici dalla parte iniziale, poiché ne risulta un modello davvero significativo per quanto diremo in seguito.

The future will not, in crucial ways, be anything like the past, even the very recent past of a month or two ago. Our economy, our priorities, our perceptions will not be what they were at the outset of this year. (...) Things that were supposed to be unstoppable stopped, and things that were supposed to be impossible — extending workers’ rights and benefits, freeing prisoners, moving a few trillion dollars around in the US — have already happened. (...) The word “emergency” comes from “emergence” or “emerge”, as if you were ejected from the familiar and urgently need to reorient. The word “catastrophe” comes from a root meaning a sudden overturning. We have reached a crossroads, we have emerged from what we assumed was normality, things have suddenly overturned. One of our main tasks now (...) is to understand this moment, what it might require of us, and what it might make possible. A disaster (which originally meant “ill-starred”, or “under a bad star”) changes the world and our view of it. Our focus shifts, and what matters shifts. What is weak breaks under new pressure, what is strong holds, and what was hidden emerges. Change is not only possible, we are swept away by it. We ourselves change (...). Even our definition of “we” might change, (...) we are finding another version of who we are.

 

Colpisce soprattutto l’insistenza sui modi di lettura e percezione nel mondo : insieme al ricorrere di termini relativi all’area della “percezione”, della “visione”, della “consapevolezza”, del venire alla luce di ciò che era “nascosto”, si presenta l’idea di un radicale cambiamento nella percezione di noi stessi, di “chi noi siamo”. E assai significativa è la considerazione sul termine “emergenza”, intesa come uscita da un mondo che ci era familiare per entrare in una realtà nuova, che dobbiamo ora cercare di comprendere. Il vero scontro, è precisato nel seguito dell’articolo, si svolge in termini di modelli cognitivi d’interpretazione del reale : i conservatori guardano al mondo nei termini (neoliberali) di eventi separati : “The idea that everything is connected is an affront to conservatives who cherish a macho everyman-for-himself frontier fantasy”, laddove “The first lesson a disaster teaches is that everything is connected.” Risultato della catastrofe è dunque rendere visibile quella struttura di connessioni profonde che regge il reale. Conseguenti le conclusioni espresse nel capoverso finale :

Hope offers us clarity that, amid the uncertainty ahead, there will be conflicts worth joining and the possibility of winning some of them. And one of the things most dangerous to this hope is the lapse into believing that everything was fine before disaster struck, and that all we need to do is return to things as they were. Ordinary life before the pandemic was already a catastrophe of desperation and exclusion for too many human beings, an environmental and climate catastrophe, an obscenity of inequality. It is too soon to know what will emerge from this emergency, but not too soon to start looking for chances to help decide it. It is, I believe, what many of us are preparing to do.

Si delinea una struttura narrativa che instaura un soggetto collettivo, un “noi” del tutto nuovo, capace di percepire ciò che prima non era visibile : la “catastrofe” che stava nascosta nella dimensione apparentemente ordinaria. È interessante notare come sia ripreso qui il modello, considerato fondante nella cultura di questo secolo, che ai più è stato presentato in forma narrativa nell’ossatura di Matrix5. E come in quell’opera cinematografica, anche qui ha un ruolo centrale la speranza in una mutazione del reale che potremmo contribuire a produrre. Ricordiamo allora il senso che può essere riconosciuto al finale della trilogia di Matrix, nel gesto con cui la bambina, che sappiamo essere fatta di scrittura, gioiosamente a sua volta riscrive il mondo, inventando un’alba inverosimilmente colorata : la logica soggiacente è che, se ci si rende conto di vivere in un mondo che non è materialmente dato ma costruito dai linguaggi, si può prendere coscienza che questo mondo sia passibile non solo di lettura ma anche di una nostra creativa riscrittura.

5 V. G. Ferraro e I. Brugo, Comunque umani, nuova ed., Roma, Meltemi, 2018, pp. 230-233 e 239-242.

2. Una questione di architetture narrative

La vicenda del Covid-19 sta producendo un’enorme quantità di materiale narrativo, di grande interesse per gli studi semiotici : rileviamo forme di narrazione molto differenziate, che disegnano anche un’interessante linea d’evoluzione. Uno spazio narrativo tanto complesso richiede modelli teorici che ne consentano una sintetica definizione tipologica ; io impiegherò una classificazione delle architetture narrative presentata nel mio libro Semiotica 3.0, e che qui richiamerò in forma sintetica6. Non si tratta di una nuova o personale teoria della narrazione, ma di una proposta di sistemazione effettuata a partire da quanto sappiamo, sulla base delle ricerche compiute in semiotica, delle teorizzazioni che fanno parte del nostro patrimonio di conoscenze, delle analisi di testi condotte da me personalmente come da altri studiosi. Ricordiamo anche che, se qualche decennio fa vi era una forte aspirazione verso modelli generali e unificatori, l’accento si è poi spostato sulla complessità, e dunque sulle articolazioni e sulla gamma delle possibili varianti. Oggi possiamo ragionare su molte diverse architetture narrative, trovando soprattutto affascinante lo studio di questa gamma di alternative e delle loro differenti valenze culturali. La mia esplorazione ha portato alla proposta, provvisoria e perfettibile, di una sistemazione dei tanti possibili modelli di architetture narrative in tre grandi classi, indicate semplicemente come Alfa, Beta e Gamma (l’ordine è ininfluente).

6 Roma, Aracne, 2019, Capitolo III.

Molto sinteticamente, la Classe Alfa corrisponde in sostanza al modello più noto, che Greimas ha proposto a partire da una rilettura del lavoro di Propp. Certo la riflessione sullo schema compositivo di Propp può essere oggi molto più avanzata di quanto non fosse cinquant’anni fa, e sappiamo di conseguenza che la macchina narrativa che regge la fiaba è assai più complessa, sottile e articolata di quanto si pensasse7. Ma questo non fa che accrescere l’interesse del modello canonico greimasiano che ne è conseguito, il cui valore culturale ci appare oggi ancora più forte e decisivo. Fondamentalmente, questo tipo di architetture narrative si fonda sulla correlazione di due istanze (o principi, o forze), che possiamo indicare come istanza di Destinazione e istanza di Prospetticità, la prima corrispondente a un principio di normazione e alle dinamiche della dimensione istituzionale e sociale (come vedremo, non necessariamente proiettandosi in un attante definito e passibile di attorializzazione), mentre la seconda si proietta nel ruolo attanziale di un Soggetto, investendo la dimensione patemica e la forza propulsiva di un volere.

7 V. Teorie della narrazione, op. cit., Capitolo 2.

La seconda classe di architetture narrative, o Classe Beta, usa la disposizione narrativa per mostrare o spiegare l’organizzazione logica dell’esperienza e la sua sensatezza, insomma per illustrare l’ordine del mondo (o eventualmente la sua assenza). Non si tratta, per meglio spiegare, della “verità” in senso osservativo o informativo, ma dell’ordine concettuale o categoriale del mondo ; trattandosi di dimensioni cosmologiche, non c’è qui né prospettiva soggettiva né vero Soggetto (se non su livelli decisamente secondari). Se la Genesi biblica può costituire un tipico esempio, in semiotica pensiamo immediatamente ai fondamentali studi sulle mitologie condotti da Claude Lévi-Strauss.

Infine la Classe Gamma raccoglie le architetture centrate su programmi narrativi di ricerca di una qualche effettiva “verità” : ci sono qui uno o più Soggetti, indirizzati però non al fare ma a un puro sapere (non un “saper fare”). Esempi molto semplici e molto diffusi possono essere quelli delle storie poliziesche, ma naturalmente ve ne sono di meno elementari, a partire ad esempio da quelli che hanno per protagonisti esploratori, astronomi o scienziati. Vedremo ora in che modo questi riferimenti possano essere utili per studiare l’evoluzione dei modi in cui l’epidemia è stata messa in racconto nei discorsi più diffusi.

3. Tre fasi : Classe Alfa – Gamma – Beta

Propongo ora un disegno schematico delle diverse fasi che, per mia osservazione, si sono succedute nella realtà italiana (è ovvio che i fenomeni effettivi seguono modi di successione meno schematici).

 

La prima fase è caratterizzata da un grande senso di paura ed angoscia, insieme a stupore e quasi incredulità : una base oscura che, con effetti di caos e di inspiegabile, si oppone all’ordine e al senso che sono propri alle costruzioni narrative. Tuttavia, queste iniziano inevitabilmente a disegnarsi, quasi spiccando su tale fondo confuso ; sono racconti di struttura semplice che impiegano architetture della prima classe : storie di medici eroici che si sacrificano per guarire i malati, infermieri che abbandonano la loro famiglia per restare costantemente al loro posto in ospedale, o anche racconti di dirigenti d’ospedale bravi o incapaci, e politici dalle decisioni spesso disastrose. Vediamo insomma Soggetti che affrontano prove difficili, Destinanti che s’impegnano positivamente nell’esercizio della loro autorità o che al contrario falliscono, e poi Danneggiamenti da rimuovere, Competenze possedute o mancanti, Performanze e Sanzioni... tutti elementi tipici delle architetture di Classe Alfa. E in questi racconti aleggia, inevitabilmente, la sinistra presenza dell’AntiSoggetto, il virus. Si rilevano in proposito soprattutto due gruppi di storie : quelle che raccontano la lotta contro il virus e quelle centrate sull’origine di quest’ultimo e sul percorso di diffusione della pandemia : il virus appare il nemico assoluto, avvolto in un alone di forte imponderabilità e imprevedibilità. In quella fase, del laboratorio di virologia di Wuhan si parlava di continuo, e bisogna riconoscere che i pipistrelli svolgevano a perfezione una loro funzione simbolica terrificante, ma insieme tradizionalmente codificata ; l’aggiunta dei “malvagi cinesi” veniva bene a completare il pittoresco quadro identitario dell’AntiSoggetto. Un mondo sotto attacco, che cerca disperatamente di trovare i modi migliori per difendersi, e insieme un mondo sbigottito e confuso, alla ricerca di brandelli di senso : tale era l’immagine che offrivano i media, e tale la percezione dominante nell’opinione diffusa.

 

Questa era, possiamo dire, una visione essenzialmente operativa, a base causale8 : cosa ha provocato l’epidemia, cosa può determinarne il superamento, chi agisce positivamente per curare le persone malate e chi no, cosa è opportuno fare per controllare una situazione così drammatica ? Questi sono tutti nuclei generativi di storie cui il modello canonico si addice a pennello. E però la relativa nitidezza di queste forme ha progressivamente iniziato a offuscarsi, da un lato a causa dei sempre più sensibili segnali di fallimento della scienza ufficiale e dall’altro lato per le crescenti oscurità e ambiguità che trapelavano dietro al laboratorio di Wuhan, non più soltanto chiuso nell’identità cinese ma, ohibò, anche francese, europea, americana... fino alla sorpresa della duplicazione in negativo di quello che ci appare come un personaggio davvero cinematografico (a partire dal nome !) : il dottor Fauci, in America popolare beniamino della lotta al virus, ma insieme sospettato di essere responsabile delle ricerche che potrebbero aver condotto alla nascita del Covid-19, capace da un lato di diffondere messaggi rassicuranti, per poi negare credibilità ai test con i tamponi. Insomma, superando lo stato iniziale d’indistinta confusione, il sospetto e l’ambiguità individuano i loro bersagli, diventando marche caratterizzanti delle narrazioni della seconda fase : il centro dell’attenzione si sposta dalla registrazione del fare agli interrogativi relativi al sapere, tra l’altro anche intorno alla vera natura della malattia. Si racconta, ad esempio, della scoperta dell’errore terapeutico che aveva portato a intervenire pesantemente sui polmoni, trascurando il ruolo decisivo dei problemi di circolazione sanguigna. Ed ecco che il vero “eroe” della storia non è più chi si sacrifica a mettere in atto cure complesse e impegnative, ma chi scopre qual è la vera natura del male. La ricerca della verità, dunque : in questa seconda fase le storie centrali diventano quelle degli scienziati, soggetti appunto non del fare ma del sapere. E le strutture narrative sono ora quelle dell’indagine, della rivelazione, e in negativo dell’inganno.

8 V. sopra, nota 2.

Siamo così passati ad architetture proprie alla Classe Gamma, e queste storie per certi lati ricordano davvero strutture tipiche del poliziesco classico ; di questo ritroviamo l’ossatura basata sulla dimensione cognitiva e la ricostruzione del passato : in luogo della performanza trasformativa, c’è qui la raccolta di indizi, processo tipicamente frammentario e cumulativo, che conduce alla fine a comporre quel disegno d’insieme che fornirà la soluzione del mistero. Tuttavia, a differenza di quanto è tipico nel poliziesco classico — e più in analogia con un certo genere cinematografico fra thriller e fantascienza — in questi racconti il Soggetto di sapere né si identifica con le istituzioni né le rappresenta per sostituzione (Sherlock Holmes, per intenderci, si sostituiva invece all’ispettore Lestrade e, pur sottolineandone l’incapacità, aiutava la polizia a trovare i colpevoli) : qui, invece, il Soggetto al centro della vicenda si trova spesso in conflitto con le istituzioni, di cui scopre nei casi migliori le incapacità, nei casi peggiori la consapevole intenzione d’ingannare l’opinione pubblica.

Entriamo nella terza fase : gli interrogativi sulla pandemia si ampliano a tematiche sempre più complesse : l’interazione tra malattie e rapporti di forza tra superpotenze, la gestione interessata delle informazioni da parte di gruppi di potere, l’influenza delle lobby farmaceutiche, e così via. L’ambiguità di soggetti e istituzioni investe livelli imperscrutabili e globali : ad esempio, Bill Gates passa dal ruolo di benefattore a quello di sinistro personaggio mirante a trar profitto da un’epidemia di cui era preventivamente a conoscenza, o di cui sarebbe addirittura responsabile, magari con lo scopo ultimo di impiantare microchip sottocutanei capaci di controllare l’intera umanità. Le vicende ipotizzate possono davvero ricordare quelle di certa narrativa fantascientifica, ma bisogna riconoscere come si sia constatata in questi mesi la possibilità di vedere trasformato in realtà quotidiana quanto prima si vedeva appunto raccontato nei film di fantascienza. Le congetture vanno molto al di là dei possibili dati di fatto, nulla sembra più impossibile, si ragiona per ipotesi di radicali trasformazioni del mondo come lo conoscevamo... come vale per i racconti fantascientifici, riscontriamo ormai le caratteristiche tipiche delle architetture narrative di Classe Beta, atte a sviluppare interrogativi che investono dimensioni globali, quasi cosmologiche. Non a caso, gli stessi soggetti coinvolti finiscono per svaporare sempre più, dissolvendosi in entità più grandi e indefinite, che più che un nome hanno etichette oscure e generiche : le “grandi multinazionali”, i “grandi gruppi finanziari”, ma si pensi anche a espressioni come Big Pharma o Deep State. E anche un settimanale moderato come il Time esce con il titolo a tutta copertina : The Great Reset.

4. Due tipi di sapere

Le elaborazioni narrative ora accennate evidenziano diversi tipi di rapporti con il sapere, facendone una categoria al tempo stesso centrale e complessa. Partiamo dai dati osservativi, schematizzando una serie di posizioni rilevate come particolarmente diffuse.

 

1. Il caso più semplice è quello di chi pensa che su questi fatti sia disponibile una conoscenza corretta e accettabile, fornita dai media cosiddetti mainstream. Tuttavia, la presenza della più complessa configurazione che considereremo al punto 5 rende tale posizione meno diffusa e più difficile da riconoscere di quanto sembrerebbe.

2. Opposto, e strutturalmente poco più complesso è l’atteggiamento così sintetizzabile : “Capisco, da questo disordinato sovrapporsi di discorsi divergenti, che al momento nessuno possiede conoscenze valide in proposito”. Tale atteggiamento rimanda a un assoluto non-sapere che coinvolge ogni attante e parte in gioco ; l’architettura narrativa vede una parallela e molteplice ricerca di conoscenza (tipica storia di Classe Gamma) concludersi, almeno per il momento, con un fallimento.

3. Parzialmente diversa è la posizione per cui “Qualcuno probabilmente dis- pone di una conoscenza affidabile, ma la confusione delle voci è tale che non sia possibile alle persone comuni capire chi davvero la possieda” : una posizione sostanzialmente neutrale, sorta di sospensione del giudizio. L’architettura narrativa, qui più complessa, suppone che vi sia un piano ove il percorso cognitivo raggiunge il suo successo (qualcuno effettivamente possiede il sapere), ma che tale piano sia offuscato da un secondo piano narrativo, ove si svolge uno scontro polemico di natura discorsiva ; sintetizzando tale condizione nell’espressione “non so chi sa” si evidenzia pienamente la presenza di questi due tipi di sapere. C’è qui consapevolezza della costruzione sociale della conoscenza, con i suoi modi di rielaborazione e distribuzione. Segnalo in proposito che, se siamo da tempo consapevoli che la Manipolazione si fondi tipicamente su un far-sapere, non abbiamo però ancora chiarito quanto e quando l’operazione del Destinante si ponga a livello di informazioni sul mondo oppure di trasformazione delle categorie di lettura del mondo — ci torneremo nel seguito.

 

4. Atteggiamento più segnato da diffidenza verso i centri di potere è quello di chi ragiona così : “Se media ufficiali e istituzioni mi spingono a pensare A, mentre altre fonti più indipendenti presentano elementi che sostengono non-A, sono portato a pensare che A sia più probabilmente falso, e non-A più vicino al vero”. Insomma, il discorso a fatica diffuso da chi dispone di pochi mezzi avrebbe per ciò stesso valenze di qualità e sincerità superiori a quello diffuso da chi controlla la maggior parte dei media. Il conflitto tra le fonti enunciative viene qui rappresentato come gerarchizzato, e di conseguenza tale da mettere in opposizione Soggetti di sapere e Soggetti di potere. La presenza di episodi di “censura” (libri non più disponibili all’acquisto, filmati cancellati da YouTube, forme varie di “lockdown dell’informazione”), unito alla sorprendente assenza di qualsiasi indagine sul laboratorio di Wuhan, e in parallelo con episodi di imbarazzata secretazione di dati da parte del governo (questo ricorrente quanto meno in Italia), fornisce in tale prospettiva più d’una “prova” dell’effettiva presenza di una volontà di nascondere, o quanto meno di limitare l’accesso a componenti rilevanti di “verità”. Il nostro non sapere diventa così l’obiettivo che si suppone perseguito da alcuni, e di conseguenza l’oggetto intorno al quale tendono a ruotare molte narrazioni — d’altra parte, tutta questa vicenda non discende forse da una pratica di censura, con le accuse di voler diffondere fake news rivolte a Li Wenliang, il medico le cui scoperte avrebbero davvero potuto bloccare all’origine l’espandersi dell’epidemia ? Questa appare insomma per troppi versi una storia fondata su occultamenti e censure.

In questo modo, la ricerca di un sapere di base, tipica dei racconti di Classe Gamma, viene incorporata all’interno d’una vicenda più larga, che riconosciamo di Classe Alfa, dove una sorta di AntiDestinante userebbe il virus e la sua rappresentazione mediatica, fortemente patemizzata, per realizzare invece una radicale trasformazione della realtà (indicata spesso con l’espressione Grande Reset), disegno che ovviamente viene tenuto nascosto dalle istituzioni, ma che altri si impegnano a rivelare. Abbiamo così tre configurazioni narrative che si includono l’una nell’altra. Dalla più esterna alla più interna : 1) la vicenda di chi viene a sapere, e si sforza di far sapere, 2) come un AntiDestinante stia attuando una performanza tesa a trasformare la società, 3) grazie anche alla diffusione di un falso sapere, solo apparentemente scientifico, sulla natura della pandemia.

 

Si noti che in questo quadro, fortemente patemizzato, il far credere si avvale in misura importante del far sentire, in una dimensione emozionale decisamente inquietante. Questa prospettiva vede la realtà fattuale come creazione dei media : si pensi alla tesi, che circola diffusamente anche tra rappresentanti delle istituzioni, per cui è la pressione psicologica esercitata dai media a spingere le persone verso comportamenti irrazionali che intasano gli ospedali e bloccano il sistema sanitario, aumentando così sia il numero delle vittime sia l’immagine di una catastrofe ingovernabile, e di conseguenza incrementando ulteriormente il livello di paura, e così di seguito. Ma la semiotica possiede validi modelli teorici per comprendere come una tale condizione patemica possa generare mondi possibili la cui forza è capace di piegare ogni più ragionevole rappresentazione del reale. Questo genere di paura agisce come un meccanismo mitizzante fondato su dinamiche di natura differenziale9 (la situazione attuale soggiace alla tensione che la relaziona a una condizione alternativa fortemente negativizzata) : un meccanismo che facilmente sorregge la generazione di architetture di Classe Beta, tipicamente fondate proprio sull’uso della dimensione virtuale come base per definire il reale (questo è ad esempio tipico dei racconti mitici studiati da Lévi-Strauss). L’immaginario diventa lo stampo che s’imprime sull’esperienza e la forgia a sua propria immagine.

9 Per la concezione differenziale dei processi patemici v. G. Ferraro, Teorie della narrazione, op. cit., pp. 221-228.

È in effetti difficile non citare in proposito il nome di Lévi-Strauss, ma questo caso più degli altri ci mostra come, per chi fa analisi semiotica, sia essenziale non solo saper formulare valide descrizioni strutturali dei racconti ma anche cogliere la complessità dei modi in cui le costruzioni narrative si affiancano e si contrappongono sulla scena culturale, dei modi in cui esse evolvono, si includono le une nelle altre, si riprendono, si rispondono e si negano, secondo una prospettiva inaugurata appunto dalle preziose intuizioni di Lévi-Strauss, ancora troppo spesso ignorate.

 

5. Segnalo infine la diffusione di una posizione del tipo : “Penso che quello che dicono i media in buona parte non sia vero e che molte critiche loro rivolte abbiano fondamento, ma decido di crederci ugualmente”. Si tratta, essenzialmente, di un meccanismo di difesa nei confronti di un’angoscia cognitiva, già segnalato tra l’altro a proposito dei fatti dell’11 settembre, soprattutto tra i cittadini americani : la versione ufficiale della vicenda appariva troppo inverosimile, e insieme contraddetta da elementi fattuali, tuttavia vi erano ragioni per mantenerla su un piano di rappresentazione pragmatica delle dinamiche tra i soggetti in gioco (in relazione in particolare all’importanza della lotta al terrorismo) e di scelte sul piano valoriale (difesa dell’identità nazionale e della bontà dei suoi principi ideali). In Italia circola la battuta scherzosa “Mi vengono in mente pensieri che non condivido”, ma bisogna riconoscere che è piuttosto drammatica la condizione di chi si divide tra, diremmo, soggetto dubbioso e soggetto spaventato, e quindi tra una dimensione di (non)sapere e una di voler credere. Aderire a ciò in cui non si crede consente tra l’altro di non distaccarsi dalla strada principale e non apparire “diversi”, e su un piano più operativo di non intralciare ciò che comunque è possibile in termini di un agire (forse) difensivo, come indossare le mascherine eccetera. Abituati a considerare ogni tipo di sapere come valorizzato positivamente, ci accorgiamo invece, di fronte a questo caso di voler-non-sapere, che non è sempre così.

 

L’apparente contraddizione che sembra caratterizzare in particolare quest’ultimo atteggiamento non è esattamente tale, poiché sappiamo di dover distinguere almeno due forme di sapere radicalmente differenti. Ora, le conoscenze scientifiche per loro natura non si presentano, o non dovrebbero farlo, come “la verità”, ma come una successione di approssimazioni, ipotesi e riaggiustamenti (con tutti i limiti a suo tempo segnalati da Imre Lakatos, s’intende). Vediamo che è ad esempio possibile a uno scienziato prestigioso denunciare difficoltà, e anche errori compiuti da “noi scienziati”, come ha fatto John Ioannidis in occasione della sua partecipazione al recente Festival della Scienza di Bologna. Ma potrebbe fare la stessa cosa un politico ? Politici e media (e di conseguenza anche molti rappresentanti della scienza quando diventano personaggi televisivi) hanno bisogno di offrire all’opinione pubblica una forma di conoscenza formulata in termini di effettive, solide “verità”. Gestire tale modalità di rappresentazione pubblica, in questo caso particolarmente malsicura, può dar luogo a impostazioni comunicative ingenue e sdrucciolevoli. I grandi media, dobbiamo constatare, sembrano non rendersi conto del danno a lungo termine provocato dalla messa in ridicolo di prestigiosi studiosi di virologia o detentori di premi Nobel. È chiaro che per la persona comune sono difficilmente comprensibili tanto la squalifica che colpisce gli esperti riconosciuti nel settore quanto le goffe giravolte che hanno tolto credibilità a un’istituzione come la World Health Organization, o anche la dichiarazione d’irrilevanza comminata ad associazioni che raccolgono centinaia di medici e biologi, o ancora la constatazione che lo stesso autorevolissimo studioso viene un giorno presentato come modello di riferimento affidabile, simbolo consacrato della lotta al virus, e il giorno dopo messo al bando per avere soltanto espresso qualche cautela tratta dalle sue esperienze di laboratorio10. È tutto un sistema di autorizzazione del sapere e dei suoi canali ufficiali che viene di fatto minato, e le conseguenze andranno in senso esattamente contrario a quanto sarebbe nelle intenzioni di questi media.

10 Particolarmente clamoroso è stato in questo senso in Italia il caso di Andrea Crisanti, professore e direttore del Dipartimento di microbiologia all’università di Padova, nonché presidente del gruppo scientifico del programma Marie Curie dell’Unione Europea.

Il piano della scienza e quello della sua rappresentazione sugli organi d’informazione divergono sempre più. Sappiamo ad esempio che ci sono molte ragioni che spiegano come una seria rivista scientifica possa pubblicare un articolo che serio non è, ma il caso del malaugurato Lancet Gate e dei suoi contenuti definiti “fake” ha avuto un effetto moltiplicato e devastante, anche perché i politici hanno comunque insistito a rifarsi ai contenuti dell’articolo (relativo all’efficacia di possibili farmaci) anche dopo che gli stessi autori ne avevano negato la validità. Media e politici sembrano sottostare anche troppo alla necessità retorica di semplificare e ridurre ogni cosa a termini elementari, ciò che in situazioni complesse rischia di tradursi in una posizione di debolezza : ci si costringe a far riferimento a un insieme limitato di dati e di argomenti, nonché all’uso di etichette goffe (“negazionista”, “complottista” e simili), più adatte a una chat adolescenziale : atteggiamento in effetti debole, quando dall’altra parte ci si trova di fronte a studiosi comunque preparati, medici che ragionano su esperienze dirette e filosofi dalle intriganti argomentazioni, nonché di fronte a dati analitici presentati in abbondanza e grafici statistici dall’apparenza inoppugnabile (ma questa, si sa, è una capacità straordinaria che i grafici statistici esibiscono nelle più diverse situazioni). Tutto questo, inevitabilmente, concorre a definire la struttura di modelli alternativi per la narrazione del reale – scenario per noi semiotici davvero intrigante da studiare.

In termini di strutture semiotiche sottostanti, comprendiamo che la sfasatura è reale e profonda : mentre la scienza pone un valore assoluto nel sapere, i politici (e il loro riflesso nei media) partono dall’esigenza di raggiungere risultati. Nei nostri termini, collochiamo ai poli opposti di un asse il sapere come valore di base (o conoscenza, per evitare bisticci terminologici), e dunque come oggetto di valore finale di un programma narrativo, e il sapere come valore d’uso, sapere per fare. Ma, mancando la consapevolezza di questi modelli semiotici, la duplicità di tali strategie di valorizzazione entra in collisione agli occhi dei destinatari : non è forse il sapere sempre “la stessa cosa” ?

Ci è noto che certe opposizioni rischiano di apparire troppo rigide e schematiche, e che la loro effettiva pertinenza rispetto ai fenomeni culturali può dipendere da una loro declinazione graduale. Anche questa opposizione può presentarsi tanto ridotta a termini più deboli quanto (come mostreremo nel paragrafo finale) ingigantita fino a definire concezioni del mondo anche radicalmente alternative. L’accentuato dominio del saper fare sul conoscere conduce a privilegiare la dimensione pragmatica : sono i risultati dell’agire a sanzionare la validità della conoscenza, sicché al limite la “realtà” non è che il riflesso del potere esercitato dalla forza trasformativa. Sul versante opposto, sono invece le categorie astratte della conoscenza a dominare, sicché è sufficiente cambiare queste ultime perché, leggendolo in altro modo, diventi di conseguenza un altro il “mondo reale”. Ma di queste posizioni vedremo più avanti le concrete, attuali realizzazioni.

 

Consideriamo ora invece un caso (importante nel contesto degli eventi di cui parliamo) in cui l’opposizione tra i due tipi di sapere si presenta ben riconoscibile e però più sfumata. Restando all’interno della categoria dei medici, si rileva un’opposizione tra quelli impegnati sul campo nella lotta al virus e quelli più impegnati su versanti di ricerca (studio di farmaci, protocolli terapeutici, eccetera). Nel primo caso si privilegia un saper fare immediato, locale e tangibile, che collega direttamente i sintomi osservabili alle risposte terapeutiche, intese come capaci di agire sulle condizioni del malato in maniera in certo senso meccanica : così, se è evidente che il paziente non riesce a respirare, si cerca con gli strumenti a disposizione di fornirgli l’ossigeno che gli manca (siamo in quello che chiamo regime narrativo causale). Nell’altro caso vediamo invece in azione un sapere che fa riferimento a una visione d’insieme, capace di cogliere analogie e connessioni con fenomeni non immediati (precedenti fenomeni epidemici), e per questa via pensare forme di cura più globalizzanti, difficilmente concepibili da parte di chi lavora in ospedale con la più forte pressione d’urgenza : difficile spiegare a quest’ultimo che un’ossigenazione forzata può condurre a morte il suo paziente perché il nocciolo del problema non è quello che superficialmente sembrerebbe, difficile spiegargli che il virus non produce direttamente le conseguenze immediatamente osservabili ma colpisce globalmente più organi e funzioni. Vediamo qui come una grammatica di lettura dell’esperienza che diremmo, con Floch, di tipo “utopico” (centrata sui valori di base) si differenzi da una grammatica “pratica” (centrata sui valori d’uso). Quest’ultima ricorda per certi aspetti il procedere del detective del racconto poliziesco : interessato all’accertamento di una verità particolare e locale, punta sulle capacità d’osservazione e su indizi frammentari che l’intuito coglie qua e là (caratteri tipici dei racconti di Classe Gamma), laddove la prospettiva “utopica” procede costruendo sistematicità, registrando coerenze e stabilendo isotopie, dunque superando architetture narrative di tipo lineare causale.

La relazione tra le due forme di “sapere” può certo essere discussa in termini filosofici, o più utilmente ad esempio in una prospettiva alla Bruno Latour, ma in questa sede vorrei sottolineare che (come in parte abbiamo già visto con i cenni alle nozioni di Floch) una prospettiva propriamente semiotica possiede suoi specifici strumenti per comprendere come la collettività elabori le sue rappresentazioni del mondo. Una direzione di lavoro auspicabile, ma che qui posso soltanto segnalare, è quella di un’indagine sui modi in cui il sistema dell’informazione costruisce e trasforma l’immagine condivisa del reale. Siamo convinti che sia così, ma sono ancora da analizzare con precisione i modi in cui questo avviene, cioè le condizioni e i processi per cui una comunicazione di natura meramente informativa (cioè puramente sintattica, relazionale) si traduca in una comunicazione di natura costruttiva, vale a dire capace di ridefinire identità e valori delle categorie in gioco11. Vorrei però ora considerare una terza direzione importante d’impiego degli strumenti semiotici.

11 Molto in breve, un chiarimento : l’enunciato informativo “Il passaporto è nella tasca” fa riferimento a specifiche occorrenze delle due categorie concettuali che presuppone, ma su cui non fornisce alcuna informazione, non toccando né cos’è un “passaporto” né cos’è una “tasca” : l’informazione concerne solo una connessione locativa puramente relazionale tra le due entità. “Il passaporto è nella tasca dei ricchi” invece, nonostante la forma superficialmente simile, rimanda non a singole occorrenze ma, correlando la categoria “passaporto” a quella dei “ricchi”, ne determina un mutamento, una ridefinizione che ci guida a pensare diversamente un certo aspetto del mondo.

5. La questione dell’accidentalità

La vicenda della pandemia pone anche questioni importanti intorno alla “accidentalità” degli eventi, concetto affascinante la cui storia recente parte dall’Illuminismo, ove si trattava — significativo per la situazione odierna ! — di negare l’idea che le vicende umane dipendessero dal disegno di un ordine trascendente (un’istanza di Destinazione)12. L’opposizione tra i due poli che possiamo dire dell’accidentale e del sistemico è fondamentale per una teoria della narrazione. Già Roland Barthes aveva toccato il tema nel lontano 1966, con l’articolo sulla Structure du fait divers13, ove sottolineava l’attrazione esercitata su molte persone da notizie che appaiono inspiegabili, perché non sembra esserci connessione logica tra cause ed effetti o perché si presenta una mera coincidenza. Tale attrazione, notiamo, risulta tanto più singolare in quanto normalmente ci sforziamo di convincerci di vivere in un mondo spiegabile e regolato dalla logica ; è vero però che siamo in mille modi affascinati dalla accidentalità, dall’imprevisto, dalla verità psicologica del disordine14. Quanto meno bisogna considerare non le sole dimensioni dell’anomalo e dell’accidentale ma le coppie oppositive accidentale / sistemico, anomalia / normalità. Gli organi d’informazione, del resto, non ci presentano mere collezioni di fatti strani ma gestiscono un complesso e sottile meccanismo d’assegnazione degli eventi lungo l’asse che va dal massimo dell’accidentale al massimo del sistemico (questo domina ad esempio nell’ambito delle notizie economiche).

12 V.B. Richardson, Unlikely Stories : Causality and the Nature of Modern Narrative, Cranbury (N.J.), Associated U.P., 1997.

13 In R. Barthes, Essais critiques, Paris, Seuil, 1964, pp. 188-97.




14 V. Teorie della narrazione, op. cit., pp. 258-sgg.

La semiotica dispone di propri strumenti per studiare le relazioni tra sistemi organizzati e combinazioni locali (è anzi nata proprio con la distinzione tra il livello sistemico della langue e quello evenemenziale della parole), ma va anche segnalato il fatto — molto rilevante a dispetto della sua fuorviante ovvietà — che tutti connettono l’accidentale con l’assenza di senso, laddove la presenza di senso corrisponderebbe a quanto è classificabile e/o logicamente connesso. Uno dei pochi casi recenti d’approfondimento di quest’area tematica è la ricerca di Eric Landowski sui modi dell’aleatorietà15. Dal momento che la semiotica della narratività è molto centrata sull’idea di un Programma Narrativo formulato da soggetti consapevoli, il fatto che il regime dell’accidentalità si ponga in opposizione con quello della programmazione ne fa, non a caso, il regno del non-aver-senso. Nel modello di Landowski, l’accidentalità si posiziona però come termine contraddittorio rispetto al regime di manipolazione, vale a dire che promuovere effetti di accidentalità è anche un modo per costruire discorsivamente la certezza di una non-manipolazione : si tratterebbe di ciò che avviene per caso, e che può aver dietro, al massimo, un ruolo di attante catalizzatore, ma non quello di un Soggetto, o Destinante. L’allestimento di un effetto di accidentalità può dunque mirare alla costruzione discorsiva della negazione di una manipolazione. E questo è ciò che secondo alcuni è concretamente avvenuto nella vicenda di cui ci occupiamo. Ovviamente, non è il “mondo in se stesso” ad essere caotico o sensato : sono i discorsi e le configurazioni narrative a disegnarne l’ordine o a negarlo.

15 Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005.

Vediamo dunque come questo processo sia osservabile nel caso della successione delle diverse fasi di lettura della pandemia. Schematizzando : in partenza dominava la sensazione di trovarsi di fronte a un’epidemia sostanzialmente accidentale, percepita come senza senso. Non a caso, è stata molto citata in questa fase la cosiddetta “teoria del Cigno Nero”16, teoria debole e ingenua ma buona per i mass media, che con questa metafora rinvia a ciò che è improbabile e imprevedibile, ma sempre pronto a intervenire nelle vicende umane. In questa fase le storie, conseguentemente, prendono perlopiù il loro senso dal fatto di narrare di personaggi “eroici” che, affrontando un nemico tanto ignoto quanto fortuito, offrono una disperata opposizione a quella che è riconosciuta come drammatica e irriducibile accidentalità (le caratteristiche simboliche sopra riconosciute ai virus assumono qui un ruolo determinante).

16 Teoria proposta da N. N. Taleb in The Black Swann, New York, Random House, 2007.

Con il tempo, questa visione della accidentalità si suddivide in più prospettive possibili. Ci si chiede se l’esplosione dell’epidemia sia da considerare davvero così completamente accidentale, imprevedibile e priva di responsabilità : potrebbe anche essere che l’epidemia, pur se accidentale, fosse comunque prevedibile, oppure solo marginalmente accidentale, come nel caso in cui il virus fosse sfuggito a un laboratorio, involontariamente sì ma non senza responsabilità per questa fuga, per non dire del caso in cui il virus fosse non mero frutto di un matrimonio tra caso e natura ma risultato di un effettivo progetto umano. E comunque, pur se accidentale è stata l’origine, non lo è la decisione politica di occultarne l’esistenza e così favorirne la diffusione. L’effetto di accidentalità progressivamente s’indebolisce e si riduce : vediamo gli esseri umani appunto impegnati a cercare di tradurre una mera sequenza di fatti in una struttura dotata di senso. E per questa via si può passare, in effetti, dalla cronaca alla Storia, assumendo una visione assai più ampia : anto l’origine quanto la diffusione del virus possono essere effetto di una globalizzazione forzata, di dissennate politiche antiecologiche, delle condizioni disastrose in cui in molti paesi sono stati ridotti i sistemi pubblici di sanità. Ciò che in un primo momento aveva potuto apparire come accidentale e imprevedibile diventa tassello coerente di un sistema complessivo, chiamando in causa una dimensione sempre più decisiva di agentività e responsabilità umana. Poteri, progetti, e dietro a questi sistemi di valori, assiologie. Un mondo da ripensare, da ridefinire secondo nuove categorie : siamo appunto ai racconti di classe Beta, ove la narrazione degli eventi è solo la superficie di un’argomentazione sull’ordine costitutivo del mondo.

 

La successione di queste tappe è rivelatrice, in ottica sociosemiotica. Abbiamo visto come il corpo sociale, muovendo da una condizione in cui dominano inafferrabilità e assenza di senso, inizia a collocarvi all’interno alcuni frammenti narrativi, come dei segnaposto di qualcosa di umano e dotato di senso. Queste strutture crescono, si collegano, si ampliano, rendendo così il mondo più compiutamente raccontabile, mentre parallelamente si passa da storie che espongono un agire a storie che narrano la ricerca di un sapere. Distribuendo sulla superficie sconnessa del mondo una rete di connessioni comprensibili, lo si avvolge in un disegno retto dalla sintassi narrativa : si delineano programmi narrativi, conflitti, Soggetti definiti. Ma, salendo progressivamente di livello, si evidenzia sempre più come tali programmi e tali volontà poggino su valori, tali da comporre alla fine assiologie sistematiche capaci di dare un senso a ogni cosa, sicché nulla vi è più di meramente fortuito. Trovo affascinante vedere come il pensiero diffuso possa tendere a seguire passo dopo passo una strada che corris- ponde, livello per livello, a una risalita del nostro percorso generativo: da un’identificazione di semplici connessioni sintattiche locali si passa al riconoscimento di schemi narrativi organizzati, per arrivare poi, sul “livello profondo” diciamo, al riconoscimento di specifici valori, e infine al di là di questi all’identificazione di quei più complessi sistemi assiologici che ne reggono la distribuzione. Certo, i fenomeni osservabili non sono così netti e lineari, e soprattutto questo percorso non vale per tutti ; in termini di sociologia dei processi culturali possiamo anzi osservare che parti diverse del corpo sociale si arrestano all’uno o all’altro stadio di questa risalita verso i livelli profondi delle strutture generative. Ma oggi, giunti alle fasi conclusive di questo percorso (possiamo forse dire di essere di fronte a una sorta di quarta fase ?) vediamo delinearsi con chiarezza alcune interpretazioni complessive e strutturate della vicenda, visioni puntate ormai verso il futuro : quando, dalla pandemia, saremo usciti.

6. Conclusione : partendo dalla fine

Inizio questa conclusione considerando due opposte linee interpretative globali, l’una tesa verso un futuro completamente trasformato e l’altra verso un confortante ritorno al passato, poiché a questo punto la lettura del presente sembra prendere senso soprattutto dal modo in cui s’immagina il dopo-epidemia — seguendo il principio, ben noto in semiotica, per cui il senso è legato primariamente al modo in cui una storia si conclude. Avverto che, per ragioni di evidenza teorica, presenterò queste prospettive nella loro versione più netta ed estrema, anche se come sempre nel mondo reale ne troviamo più spesso versioni parziali e smorzate.

 

La prima strada muove da una lettura, piuttosto diffusa, che vede in quanto sta accadendo una moderna versione del mito di Prometeo : abbiamo creduto troppo nelle nostre capacità di dominio tecnologico sul mondo, fino a rischiare la nostra stessa rovina. È dunque necessario ritornare a una condizione di equilibrio, potremmo dire di giuste misure e giuste distanze tra antropizzazione e universo naturale. L’esplosione del virus dipende dal fatto che abbiamo invaso spazi naturali appartenenti ad altre specie — si noti il riferimento a una suddivisione del mondo in spazi eterogenei concettualmente e simbolicamente definiti. Solo se torneremo a rispettare la natura, tenendo anzi conto della nostra stessa natura di specie animale legata all’ambiente, potremo evitare ulteriori catastrofi. Questo atteggiamento presenta molti caratteri propri alle costruzioni narrative di tipo mitico, che sappiamo essere molto adatte a elaborare un’immagine semiotizzata del mondo : più in particolare, vi scorgiamo una variante attualizzata che, senza parlare propriamente di un’età dell’oro, propone comunque il ritorno a un equilibrio e a un’armonia propri a un tempo passato.

L’altra posizione rifiuta all’opposto ogni ambiguità tra progresso verso il futuro e ritorno a condizioni precedenti. Saranno, a salvarci, le nostre capacità d’avanzamento tecnologico, pur se le vediamo per troppi versi ostacolate ; di fatto, come notano alcuni, esse stridono con tratti umani restati in buona misura invariati dalla preistoria : siamo ancora troppo “animali”, dominati da passioni rozze e bisogni elementari. Affiorano, su questa base, posizioni più esplicite : il fatto che tutti si sentano appartenere alla stessa specie di Mozart o Leonardo occulta la distanza tra l’inettitudine dei molti e la natura speciale di un’indubitabile élite. Spetta a quest’ultima, che sola possiede capacità di progettazione a lungo termine, trovare la soluzione. Leggiamo che la ricerca del vaccino, sorta di Santo Graal della nostra era, potrebbe essere solo il primo passo per l’introduzione di modificazioni biologiche capaci di battere nuovi tipi di virus e altre patologie, sicché il nostro DNA diventerà modificabile e controllabile via rete : sarà l’inizio dell’era post-umana, da molti citata, o come anche si dice del Mondo 2.0. I più arditi si spingono nell’immaginare il seguito : informatizzazione totale, riconoscimento facciale onnipervasivo e controllo su ogni aspetto della vita personale, protesi digitali, dilagare delle grandi multinazionali, abolizione della maggior parte dei ruoli lavorativi, più netta e funzionale distinzione tra le élite e la popolazione comune, e così via. Non possiamo sapere cosa accadrà di fatto — ma è vero che alcuni di questi processi appaiono già in corso, e che sono anche capi di governo ad ammonirci che siamo di fronte a un radicale mutamento della nostra società ; in ogni caso, ciò che conta per noi è che questo genere d’ipotesi è entrato a far parte dell’immaginario contemporaneo. Il modello narrativo resta ancora quello classico della modernità : siamo collocati in un punto di crisi che segna una tappa decisiva lungo un percorso che ci proietta sempre più verso un futuro trasformato e definito dal nostro saper-fare e poter-fare. E si noti che, come in tutte le architetture di Classe Alfa, viene al centro la definizione del rapporto tra individuo e collettività. Qui, però, il Destinante di stampo liberale cui la modernità ci aveva abituati cede il passo a una forma sempre più oscura, impersonale e remota. Quella, forse, cui il sinistro dominio del virus ci sta in questi mesi abituando?

 

In termini che ci consentano una migliore modellizzazione semiotica, possiamo notare che la prima prospettiva poggia sul principio per cui noi già possediamo un sapere chiave, un modello ideale del mondo : è poi la concreta realtà attuale a dover essere riportata a quel modello e alle sue sostanzialmente atemporali categorie. Definirla posizione “mitizzante” non appare fuori luogo, anche se mi sarebbe venuto da chiamarla “utopica”, se il termine non fosse già stato preso... In effetti però, a pensarci, le analogie con gli utopici di Floch sono davvero molto forti, a partire dal punto essenziale per cui sono i significati a dominare sulle cose, indipendentemente dalla loro capacità funzionale. Come i nostri “mitizzanti”, gli “utopici” del modello flochiano amano le tradizioni e desiderano vivere in un mondo coerentemente organizzato, ricco di valori e di senso della comunità. L’utopico al supermercato, se vi si riflette, acquistando prodotti vuole acquistare “mondi” semanticamente organici, e alla struttura commerciale chiede che siano allestiti piccoli universi coerenti — quello ad esempio dove il pane sfarina e profuma, è posto nelle ceste di vimini, maneggiato da inservienti con grembiuli in sintonia, eccetera. Si chiedono isotopie, effetti di sistema : perché il complesso dei valori e delle categorie semiotiche domina sui caratteri funzionali degli oggetti, sulla loro capacità di fare.

La seconda prospettiva sostiene al contrario che, essendo la realtà in costante e progressiva trasformazione — essendo anzi la realtà per definizione non statica ma intrinsecamente trasformativa — si debba seguire l’opposto principio di adeguare le nostre categorie alle nuove realtà, in modo che il nostro pensiero sia conforme ad un mondo sempre più efficiente e sicuro (questa posizione, che direi “tecnocratica”, riprende dunque il principio di un assoluto dominio delle competenze pragmatiche). L’analogia con i consumatori “pratici” del modello di Floch è ben percepibile, dato che in entrambi i casi si privilegia l’efficacia dei valori d’uso ; certo però, rispetto a quegli antenati, i nostri attuali “tecnocrati” appaiono come dei pratici, come si dice, on steroids.

Ma la definizione di queste posizioni, tra loro contrarie, ci consente d’introdurre nel modello anche le due altre posizioni, non meno interessanti, che si presentano quali rispettivi contraddittori. Con un’avvertenza, però. Sappiamo che i “quadrati semiotici” non sempre obbediscono alla forma logica prevista all’origine ; in particolare, non vi è implicazione tra gli elementi sui lati del quadrato (o “deissi”). In questo caso, va osservato che la conflittualità fra le posizioni risulta spinta all’estremo : qualunque altra prospettiva si pensa come in contraddizione con la posizione “tecnocratica”, e lo stesso si può dire per la posizione “mitizzante”. In questo caso la stessa presupposizione che, sui lati del nostro quadrato, può anche teoricamente valere, è però anch’essa generatrice di un fiero dissenso ! Superando l’effetto immediato di questa conflittualità, concentriamoci però sulle condizioni logiche, quelle che reggono poi le architetture narrative.

 

Le quattro posizioni

 

La negazione della posizione mitizzante è ampiamente espressa dalle tante fonti d’informazione alternative : altro che ritorno al mondo precedente, qui il punto fondamentale è quello di negare l’esistenza stessa di una “realtà di prima”. Esattamente nel modo in cui i “critici” di Floch negavano la prospettiva degli “utopici”, questi “iper-critici” in prospettiva nettamente controcorrente mettono in dubbio lo stato delle cose. Non si tratta per loro di una questione ideologica bensì per così dire percettiva : il mondo in cui ci troviamo non è quello in cui avevamo creduto di vivere né quello che la narrazione ufficiale va confezionando. È singolare constatare quanto tale posizione sia (involontariamente) sorretta e rinforzata da media e tecnocrati vari, sia per la loro imbarazzante rigidità sia per l’abitudine ad attribuire al campo alternativo grandi nomi di studiosi ed esperti non del tutto allineati, con il risultato di accrescere prestigio e valore delle opinioni avversarie. Davvero, la posizione “controcorrente” appare in questo modo presupporre quella “tecnocratica” cui pure si oppone, e del resto non a caso la costruzione del sapere alternativo si fonda in larga misura sui dati disponibili, spesso dati ufficiali, dichiarazioni di personaggi istituzionali, addirittura ricerche sperimentali pubblicate su riviste scientifiche (ma ignorate dai grandi media). Ne vengono tratte conclusioni in certo modo azzardate, ma fondate su procedimenti tesi a mostrare, dati alla mano, che la realtà di fatto non è quella distorta dai media. Questi sono indubbiamente i nipotini arrabbiati dei “critici” flochiani : è come se questi ultimi, a furia di fare attenzione a non farsi ingannare dalla pubblicità, a leggere i dati precisi sulle etichette, a badare al concreto e a ragionare con la loro testa, fossero giunti a conclusioni, sulla tendenza dilagante all’inganno, che i loro predecessori avrebbero potuto in effetti anche approvare, pur trovandole forse alquanto eccessive.

Infine, abbiamo già incontrato nell’articolo di Rebecca Solnit la posizione che esplicitamente nega il principio della primarietà del fare — e insieme prende le distanze dalla posizione che diciamo “mitizzante”, cioè dall’idea (che pure in fondo presuppone) di un possibile ritorno all’indietro. Secondo quest’ultima prospettiva, ciò di cui vi sarebbe ora bisogno, quasi a modo di una subitanea rivelazione, è un differente sistema categoriale, un altro modo di leggere il mondo ; non si tratta di trasformare operativamente le cose ma di diventare noi stessi diversi, sì che diverso sia il modo in cui pensiamo il reale (si ricordi l’affinità con le basi di Matrix). Tra il prima e il dopo non c’è continuità ma catastrofe, ai successi del poter fare si contrappone l’avvento dell’impossibile, all’oscenità del reale si oppone la speranza. Questo accento su una trasformazione del sistema categoriale mi fa etichettare questa prospettiva come ipercostruttivista — e notiamo anche la parziale sovrapposizione, da manuale, di alcuni tratti delle due posizioni che nello schema valgono come sub-contrari.

 

Certo, in questo caso non c’è vera corrispondenza con i “ludici” di Floch, né d’altra parte il tema l’avrebbe reso possibile. Le due prospettive sul mondo, per quanto differenti per vari aspetti, occupano però la stessa area nel modello, anche perché fondamentalmente caratterizzate dal rifiuto di riconoscere una valenza primaria all’utilità delle cose, piuttosto che al loro soggettivo significato. Il “ludico”, certo, mantiene un atteggiamento distaccato e sdrammatizzato, al contrario di quanto avviene in questo caso, ma si mira comunque essenzialmente alla costruzione di un proprio mondo diverso : anche chi al supermercato acquista una salsa esotica invece che una scatola di spaghetti, e un CD musicale invece che una bottiglia d’olio per friggere, esprime a suo modo una forma di dissenso e il desiderio di vivere in un mondo differente, non confuso con la mortificante “normalità”. Anche se i ludici non parlano di un “risveglio”, sembrano escludere anche loro, come i nostri “ipercostruttivisti”, la possibilità di compromessi o posizioni intermedie — coerentemente, del resto, con il principio che concepisce programmi narrativi che ignorano le fasi centrate su valori utilitari.

Come si vede, le due posizioni collocate sul lato sinistro vedono il reale come punto di riferimento primario, pur se ciò che è realtà per gli uni non lo è affatto per gli altri, mentre le altre due posizioni considerano decisivi non i fatti ma le categorie tramite le quali li leggiamo, spostando dunque il loro reciproco dissenso al livello del sistema categoriale, considerato come primario. Da sottolineare anche (e da approfondire in termini semiotici) che le due prospettive collocate in posizione di subcontrari mettono parimenti in crisi quel fondamento di tenuta psicologica e sociale che Anthony Giddens chiama sicurezza ontologica – la fiducia nella continuità delle cose, delle routine sociali, della persistenza nel tempo della nostra stessa identità, e di tutto ciò che pensiamo come “mondo reale”17.

17 Modernity and Self-Identity, Cambridge, Polity Press, 1991.

Ci si potrà chiedere, in conclusione, quanto questo modello possa essere considerato nuovo, e applicabile ad altre situazioni. Il modello che propongo non è stato costruito a partire da quello di Floch, bensì a partire dall’osservazione dei fatti, cioè nel nostro caso dall’osservazione dei testi e dei flussi discorsivi, ma la modellizzazione dei dati è stata svolta tramite le categorie di un modo di pensare specificamente semiotico. Non mi ha quindi stupito di avere potuto a posteriori constatare questa affinità, tanto più che sul modello di Floch ero in varie occasioni tornato, appunto per evidenziarne la profondità concettuale e le possibilità di sviluppo18. Certo, alla crescente consapevolezza della complessità dei fenomeni studiati dobbiamo rispondere con un affinamento dei nostri strumenti che ne valorizzi tutte le possibilità : è questo ciò che intendo quando parlo di una nuova fase di avanzamento della semiotica, una Semiotica 3.0. Nel corso delle riflessioni condotte in queste pagine, abbiamo visto come possano validamente sostenere il nostro lavoro gli strumenti di teoria narrativa di cui disponiamo, ma anche come quelle nozioni e quei metodi possano dar vita a nuovi sviluppi, tali da rendere palese, in particolare, l’enorme potenziale racchiuso nell’insegnamento di Greimas, che resta così tuttora vivissimo. Abbiamo però anche constatato la presenza di forme di processi culturali, o potremmo dire di grammatiche, che si allontanano da un’interpretazione del mondo congruente con modelli narrativi lineari : non è in gioco una trasformazione legata ad eventi a livello locale, bensì la trasformazione di quell’involucro categoriale che di quegli eventi definisce l’identità

Possiamo riportare tale modo di vedere a un modello teorico di derivazione topologica, estremamente raffinato, suggerito da Lévi-Strauss nei suoi studi sui sistemi narrativi visti come sistemi di pensiero, e che io ho provato a riprendere in maniera più sistematizzata, indicandolo come Teoria dei campi semiotici19. Secondo questo modello teorico, infatti, persino nel caso in cui una certa entità resti oggettivamente la stessa, essa può mutare di valore e d’identità in dipendenza dalla trasformazione del campo di riferimento in cui è inserita, cioè del sistema di coordinate culturali che ne controlla la generazione e la lettura. Un modello teorico di questo genere (ancora da studiare come si connetta con la teoria sociologica dei campi, propria alla tradizione che muove da autori come Pierre Bourdieu e Anthony Giddens) consente di forgiare strumenti di analisi più adeguati alle posizioni che occupano il lato destro del nostro quadrato. Ma ciò che comunque è sicuro è che, come vediamo, abbiamo ancora molti frutti da raccogliere, da quanto hanno seminato i nostri maestri.

18 V. G. Ferraro, Semiotica 3.0, op. cit., pp. 297-304.















19 Cfr. G. Ferraro, Teorie della narrazione, op. cit., pp. 212-218.

Opere citate

Barthes, Roland, Essais critiques, Paris, Seuil, 1964.

Douglas, Mary, Purity and Danger, Harmondwsworth, Penguin, 1970.

Ferraro, Guido, Teorie della narrazione, Roma, Carocci, 2015.

— “Generazione dei testi e irresponsabilità d’enunciazione. Da La Jetée a Twelve Monkeys”, Lexia, 25-26, 2016.

Semiotica 3.0, Roma, Aracne, 2019.

— e Isabella Brugo, Comunque umani, nuova ed., Roma, Meltemi, 2018.

Floch, Jean-Marie, “La génération d’un espace commercial”, Actes Sémiotiques-Documents, IX, 1987.

Giddens, Anthony, Modernity and Self-Identity, Cambridge, Polity Press, 1991.

Landowski, Eric, Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005.

Richardson, Brian, Unlikely Stories : Causality and the Nature of Modern Narrative, Cranbury (N.J.), Associated U.P., 1997.

Taleb, Nassim Nicholas, The Black Swann, New York, Random House, 2007.

 


1 J.-M. Floch, “La génération d’un espace commercial”, Actes Sémiotiques-Documents, IX, 1987.

2 V. in proposito il mio articolo “Generazione dei testi e irresponsabilità d’enunciazione. Da La Jetée a Twelve Monkeys”, Lexia, 25-26, 2016, pp. 307-326.

3 Purity and Danger, Harmondwsworth, Penguin, 1970.

4 In Teorie della narrazione (Roma, Carocci, 2015, pp. 85-93) rilevo che le fasi dello schema di Propp, come del modello canonico di Greimas, possono essere sottoposte, a livello testuale, a forme di scorporazione o accentuazione, in chiave di strategie comunicative, ad esempio in ambito pubblicitario. Distinguo su questa base quattro regimi narrativi : causale, posizionale, prospettico e multiprospettico.

5 V. G. Ferraro e I. Brugo, Comunque umani, nuova ed., Roma, Meltemi, 2018, pp. 230-233 e 239-242.

6 Roma, Aracne, 2019, Capitolo III.

7 V. Teorie della narrazione, op. cit., Capitolo 2.

8 V. sopra, nota 2.

9 Per la concezione differenziale dei processi patemici v. G. Ferraro, Teorie della narrazione, op. cit., pp. 221-228.

10 Particolarmente clamoroso è stato in questo senso in Italia il caso di Andrea Crisanti, professore e direttore del Dipartimento di microbiologia all’università di Padova, nonché presidente del gruppo scientifico del programma Marie Curie dell’Unione Europea.

11 Molto in breve, un chiarimento : l’enunciato informativo “Il passaporto è nella tasca” fa riferimento a specifiche occorrenze delle due categorie concettuali che presuppone, ma su cui non fornisce alcuna informazione, non toccando né cos’è un “passaporto” né cos’è una “tasca” : l’informazione concerne solo una connessione locativa puramente relazionale tra le due entità. “Il passaporto è nella tasca dei ricchi” invece, nonostante la forma superficialmente simile, rimanda non a singole occorrenze ma, correlando la categoria “passaporto” a quella dei “ricchi”, ne determina un mutamento, una ridefinizione che ci guida a pensare diversamente un certo aspetto del mondo.

12 V.B. Richardson, Unlikely Stories : Causality and the Nature of Modern Narrative, Cranbury (N.J.), Associated U.P., 1997.

13 In R. Barthes, Essais critiques, Paris, Seuil, 1964, pp. 188-97.

14 V. Teorie della narrazione, op. cit., pp. 258-sgg.

15 Les interactions risquées, Limoges, Pulim, 2005.

16 Teoria proposta da N. N. Taleb in The Black Swann, New York, Random House, 2007.

17 Modernity and Self-Identity, Cambridge, Polity Press, 1991.

18 V. G. Ferraro, Semiotica 3.0, op. cit., pp. 297-304.

19 Cfr. G. Ferraro, Teorie della narrazione, op. cit., pp. 212-218.

 

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Parole chiave: accidentalità, architetture narrative, campi semiotici, evento / sistema, forme del sapere, passione, regimi narrativi, sistemi di categorizzazione.

Mots clefs: accidentalité, archtecture narrative, champ sémiotique, événement vs système, formes du savoir, passion, régime narratif, système de catégorisation.

Autori citati: Roland Barthes, Pierre Bourdieu, Mary Douglas, Jean-Marie Floch, Anthony Giddens, Algirdas J. Greimas, Imre Lakatos, Eric Landowski, Bruno Latour, Claude Lévi-Strauss, Vladimir Propp, Brian Richardson, Nassim Nicholas Taleb.


Plan:

Premesse

1. Eventi locali o mutamento di sistema ?

2. Una questione di architetture narrative

3. Tre fasi : Classe Alfa – Gamma – Beta

4. Due tipi di sapere

5. La questione dell’accidentalità

Conclusione : partendo dalla fine