In vivo

Tornando dal
Congresso mondiale di Semiotica
a Salonicco, 2022

Franciscu Sedda
Università di Cagliari

 

Publié en ligne le 26 décembre 2022
https://doi.org/10.23925/2763-700X.2022n4.60289
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Delle cose vive non si può dire la totalità.

Questa condizione si applica anche al congresso mondiale di semiotica.

E non solo perché il formato con dieci sessioni in parallelo impediva fatalmente la possibilità di una presa globale (o minimamente esaustiva!) dell’evento che si è svolto a Salonicco dal 30 agosto al 3 settembre 2022.

E neanche perché il punto di vista del sottoscritto è stato ulteriormente limitato dalla partecipazione ad alcuni panel piuttosto che ad altri, così come da altre costrizioni sociosemiotiche che determinano i nostri vissuti al di là delle volontà individuali, come un volo di ritorno un giorno prima della chiusura dei lavori a causa di altri impegni accademici.

A dare il senso di un evento proprio di una entità viva è la dimensione polimorfa e sovrabbondante delle relazioni presentate, dei loro temi, della partecipazione. Più di 600 interventi previsti (qui il programma: https:// www .semioticsworld. com/ wp- content/ uploads /2022/ 08/ Semiotic_ program_ final_ 2022-08-26.pdf) e un book of abstract che contava 270 pagine. Insomma, centinaia di studiose e studiose riuniti a sondare le molte pieghe del senso e della significazione. E questo nonostante i tempi di crisi sanitaria, economica, umanitaria che spirando sul mondo limitavano lo spostamento e la partecipazione in presenza, l’unica modalità dell’esserci prevista in quel di Salonicco.

Certo, di un essere di cui non si vedano confini si può temere l’inesistenza, o quantomeno la perdita di una identità effettiva e riconoscibile.

Si tratta di un rischio a cui un rito come quello dei congressi mondiali espone costantemente le più varie discipline ma che la semiotica sente con particolare acutezza, forse per la sua vita istituzionale relativamente giovane, per le sue radici plurali, per il suo statuto intellettuale costantemente inattuale, per il suo posizionamento politico ai margini del potere.

A Buenos Aires — sede dell’ultimo congresso mondiale prima della pandemia — il tema era stato sollevato, non senza destare qualche malumore, da Paolo Fabbri. Con la sua consueta verve, davanti alla profonda diversità di temi ma soprattutto di approcci alla semiotica presenti al congresso, il semiologo riminese aveva proposto di distinguere fra una semiotica marcata e una semiotica non marcata. A mia memoria quella proposta indicava una forma di convivenza, certo nei modi paradossali e provocatori a cui ci aveva abituato Paolo, ma pur sempre una forma di convivenza: Fabbri in qualche misura riconosceva (e chiedeva di riconoscere) dentro il vasto campo disciplinare, da un lato, una semiotica sempre più volta all’ibridazione (incontrollata?) con altre discipline, in particolare quelle della comunicazione e degli studi culturali, dall’altro lato, una semiotica (minoritaria?) che tenesse ostinatamente fede ad un principio di interdefinizione dei concetti e alla necessità di uno sguardo analitico sul mondo metodologicamente fondato. Una fondazione certo aperta e rivedibile ma determinata a pagare il debito e tenere vivo il confronto con una storia intellettuale e disciplinare ben definita, vale a dire quella che rimanda alla tradizione strutturalista.

Le due semiotiche, se avevamo ben inteso Fabbri all’epoca, sono certo diverse, a volte anche in reciproca antipatia, ma in fondo si necessitano a vicenda: perché svolgono funzioni distinte nella vita della disciplina, perché consentono all’una di definirsi per differenza dall’altra, perché mantengono accesa una asimmetria interna che, come ci insegna Lotman, è una delle fonti primarie del dinamismo intellettuale.

Certo, a guardare le cose in dettaglio il panorama interno è ben più complesso. La semiotica non marcata certamente non si percepisce così. Non è internamente omogenea. E dal suo interno si profilano certamente altre forme di marcatura. Così pure la semiotica marcata è praticata in molteplici modi, cova ipotesi di sviluppo difformi e non disdegna certo l’incontro con un’alterità teorica e fenomenica da tradurre nelle sue maglie, attitudine che la costituisce fin dal principio.

Forse la distinzione è che laddove una marca esplicitamente il suo essere semiotica un’altra si camuffa con più facilità sotto altre vesti. Laddove una tiene il punto metalinguistico (sperando che questa non sia solo una posa o un’imbalsamazione della teoria) l’altra cede più facilmente al fascino delle mode teorico-concettuali altrui (sperando che questo non significhi una completa resa alla propria originalità e ad un minimo di coerenza interna).

Se dovessi dire cosa ne è di questa tensione interna della semiotica colta nello specchio del convegno mondiale di Salonicco, direi che la semiotica marcata resiste e persiste. Forse riguadagna persino qualche posizione. Ma la percezione potrebbe essere doppiamente falsata. Da un lato a causa del mio posizionamento soggettivo dentro una serie di panel a forte componente teorico-metodologica. In secondo luogo, perché il posizionamento stesso del congresso nello spazio euro-mediterraneo può aver favorito la presenza di semiotici e semiotiche che privilegiano appunto un approccio marcato, che ha qui un suo epicentro.

Al netto di queste possibili distorsioni del punto di vista l’atmosfera nelle aule, nei corridoi, nei momenti di socialità di Salonicco mi è parsa improntata al dialogo, alla convivenza e anche ad una certa curiosità intra e inter-disciplinare (penso ad esempio, sul primo versante, ai tanti panel sulla traduzione come concetto condiviso della disciplina e, sull’altro versante, alla riapertura di un dialogo con l’antropologia del linguaggio, la più metodologica delle branche dello studio culturale in ambito anglofono).

Forse a propiziare questa buona riuscita del rito, oltre alle divinità greche, è stato il ruolo di nume tutelare affidato a Jurj Lotman: una bella mostra allestita negli spazi dell’Università della Macedonia ne celebrava il centenario dalla nascita con dei bei materiali inediti o rari — lettere, articoli di giornale, fotografie, video.

Ma la vitalità della disciplina — l’impressione parziale che di questa vitalità io ho avuto — è stata forse merito di altri due fattori.

Il primo è stata la presenza a Salonicco di tante giovani ricercatrici e ricercatori. Come se nuove forze stessero affluendo verso la semiotica, portando linfa ed energia al suo corpo impegnato in una complessa quanto inevitabile trasformazione. Un passaggio generazionale non privo di rischi, considerato da un lato il venir meno o appartarsi della generazione fondatrice della disciplina — toccante il momento in cui sono stati celebrati coloro che negli ultimi anni ci hanno lasciato, anche a causa della pandemia — mentre le nuove generazioni hanno difficoltà ad entrare in modo stabile all’interno di un mondo accademico che comprime se non osteggia la presenza della semiotica. A fronte di ciò vi è la sensazione che dall’incontro fra una nuova generazione di semiotici abituati ad avere il mondo come orizzonte e la diffusione sempre più transnazionale della disciplina si aprano nuovi territori per trovare lavoro e sviluppare la ricerca semiotica. Condizione questa intimamente esplosiva. Questa sempre più accentuata condizione di transnazionalità è testimoniata anche dal modo in cui, sempre più spesso, le maggiori riviste semiotiche vengono curate da colleghi operanti in continenti diversi, chiamano a raccolta studiosi e studiose che lavorano in molteplici paesi e a volte nemmeno conoscendosi di persona, generando così un effetto di intrigante novità. Anche questo è il segno che la semiotica è un essere vivo, che cerca di aggiustarsi al mondo, cambiando mentre prova a cambiarlo.

Il secondo effetto di vitalità nasce per così dire riflessivamente. Il convegno mondiale di Salonicco era intitolato “Semiotics in the Lifeworld”. Come a ribadire non solo che la semiotica è viva ma è sempre più impegnata a pensare la vita, il vivente, nelle sue molteplici ed interrelate forme. Quanto più la vita planetaria è a rischio, quanto più il senso dei nostri vissuti si incrina, quanto più ci si deve sentire in dovere di studiarla, capirla e difenderla questa vita. La semiotica non si vuole sottrarre a questo compito. Sempre incompleto ma sempre più necessario.

Di questa sfida etico-intellettuale — una disciplina viva impegnata a mettersi alla prova e a disposizione dei vissuti e del vivente — potremo saggiare i risultati nei prossimi anni e nel prossimo congresso mondiale che si terrà fra due anni a Varsavia.

 

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Recebido em 10/10/2022. / Aceito em 25/10/2022.