Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mc 12,17)

Dai a César o que é de César, e a Deus o que é de Deus (Mc 12,17)

Ricardo Pérez Márquez
Doutor em Sagrada Escritura pela Pontifícia Universidade Gregoriana (PUG-Roma). Professor na Pontificia Facoltà Teologica “Marianum” (Roma). Contato: perzezmarquez@virgilio.it

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Abstract: Gli studi realizzati da José M. Castillo nella decade del duemiladieci sull’umanità e sull’umanizzazione di Dio,   hanno aperto un nuovo varco non solo per la ricerca teologica e per la pastorale biblica, ma soprattutto, nell’ambito dei diritti umani, per la coscienza che la Chiesa come istituzione deve avere nel tutelare la libertà e il valore dell’essere umano. L’apporto fondamentale che José M. Castillo ha dato alla teologia con la sua riflessione è stato riportare il vangelo di Gesù al centro della fede cristiana, richiamando la Chiesa a convertirsi ad esso. Si comprende il vangelo solo come uno stile di vita dove si rivela l’umanizzazione del Dio trascendente e dove la sua creatura si “umanizza”.

Parole chiave: Dios; umanizzazione; vangelo

Resumo: Os estudos realizados por José M. Castillo na década de dois mil e dez sobre a humanidade e a humanização de Deus abriram um novo caminho não só para a investigação teológica e a pastoral bíblica, mas sobretudo, no campo dos direitos humanos, pela consciência que a Igreja como instituição deve ter na proteção da liberdade e do valor do ser humano. A contribuição fundamental que José M. Castillo deu à teologia com a sua reflexão foi trazer o evangelho de Jesus de volta ao centro da fé cristã, chamando a Igreja a converter-se a ele. O evangelho é entendido apenas como um estilo de vida onde se revela a humanização do Deus transcendente e onde a sua criação é “humanizada”.

Palavras- chave: Deus, humanização; Evangelho

Era la primavera del 1976 a Granada, finita la dittatura franchista, quando sentii parlare di un padre gesuita che nelle sue prediche usava un linguaggio provocatorio e dirompente, presentando la novità del vangelo in modo audace, quale messaggio di liberazione, prassi distintiva della fede cristiana ed elemento di apertura verso orizzonti di pienezza umana. Andai ad ascoltarlo una domenica con dei compagni universitari e, dietro raccomandazione di uno di loro, portai penna e quaderno per non perdere dei passaggi importanti dell’omelia, poiché il padre gesuita, così si diceva, spiegava il vangelo partendo dal testo originale in lingua greca. Quella domenica ebbi la fortuna di conoscere uno dei più grandi teologi cattolici dei nostri tempi, il prof. José María Castillo, per poi averlo, negli anni a seguire,  come amico carissimo. 

Nell’omelia di quella domenica di primavera, quando in Spagna si respirava aria nuova di libertà e si avviava il processo democratico dopo quaranta anni di dura e buia dittatura, il padre Castillo riprese un passaggio del vangelo di Marco riguardo la questione del tributo a Cesare, facendo notare l’importanza del tradurre correttamente, in lingua spagnola, ciò che l’evangelista aveva scritto in greco. Presi appunti sul mio quaderno quando Castillo spiegò la differenza tra i due verbi greci usati nel testo marciano: δίδωμι e αποδιδωμι. Come ben specificava l’evangelista nella sua narrazione, i farisei e gli erodiani,  rappresentanti del potere religioso e politico, per tentare Gesù gli chiesero se fosse lecito o no dare il tributo a Cesare ripetendo per tre volte il verbo δίδωμι:   e;xestin dou/nai kh/nson Kai,sari h' ou;È dw/men h' mh. dw/men (Mc 12,14). Lui, con la sua risposta, che smascherava la loro ipocrisia, andava oltre le loro bieche pretese parlando non di “dare” bensì di “rendere”, come il verbo αποδιδωμι indica: ta. Kai,saroj avpo,dote Kai,sari kai. ta. tou/ qeou/ tw/| qew/|Å (Mc 12,17). La questione  pertanto non era “dare”, ma “restituire”. Mi rimasero impresse quelle parole del noto predicatore quando, evidenziando la differenza tra i due verbi, spiegò con franchezza la richiesta di Gesù, una richiesta che risuonava nella chiesa dei gesuiti con un’attualità sconvolgente: bisognava restituire a Dio ciò che gli era stato tolto, cioè il suo popolo… ma rendere anche al popolo ciò di cui era stato spogliato, ossia la dignità, privato com’era della propria libertà. Pensavo alla situazione del mio paese in quella fase di passaggio dalla dittatura alla democrazia, a una Chiesa istituzione connivente con il potente di turno, a un popolo che, carente di libertà, era stato allontanato da quel Dio che rovescia i potenti dai troni (cf. Lc 1,51). Per la prima volta capivo che il vangelo era parola viva, che la fede non era una dottrina da asserire, ma una risposta a lasciarsi coinvolgere da quella parola così feconda di vita. Dopo quell’incontro continuai a seguire il teologo Castillo frequentando i suoi corsi di teologia popolare e leggendo le sue pubblicazioni. Senz’altro tale esperienza ebbe un peso importante sia nella decisione, una volta concluso il percorso universitario a Granada, di dedicarmi allo studio biblico, sia nella scelta di abbracciare la vita fraterna nell’Ordine dei Servi di Maria in Italia.

Il vangelo di Marco resta una pietra miliare nella mia formazione biblico- teologica, in quanto mi ha offerto la possibilità di approfondire la ricchezza dei testi evangelici e di toccare con mano la loro attualità. In questo percorso gli scritti  di José María Castillo sono stati sempre illuminanti. La sua interessante analisi sull’originalità del testo del vangelo, come teologia narrativa (CASTILLO, 2019, p.11), a differenza di quella speculativa delle epistole paoline, rende il suo messaggio più accessibile ed affascinante. Ciò che è determinante nella narrazione dei vangeli non è la cronaca dell’accaduto, né la storicità dell’evento, bensì la sua significatività:

[…] cuando leemos los evangelios, lo que importa no es si lo que relatan occurrió o no tal y como nos lo cuentan. Lo que importa, y por lo tanto interesa, es lo que significa y representa el relato, lo que nos quiere decir y lo que nos enseña para nuestra forma de vivir y nuestro proyecto di vida [...]. (CASTILLO, 2019, p.12).

Questo singolare modo di narrare che fa della buona notizia del Regno un messaggio vivo ed attuale da incarnare nella vita dei credenti, porta a centrare l’attenzione sull’intenzione di Marco, il primo ad affrontare la sfida di mettere per iscritto l’annuncio della buona notizia, ossia il primo a scrivere un vangelo. Dal suo testo emergono dei dati interessanti sulla sua identità come autore e sulla sua testimonianza come discepolo. Il vangelo si scrive per i credenti in Gesù non per soddisfare la loro curiosità circa la sua storia, bensì per nutrire la loro fede in lui. Essere discepoli pertanto significa incarnare la buona notizia, lasciandosi trasformare da essa; per questo l’identità di chi lo segue si configura come sequela, che consiste nel percorrere la stessa strada del Maestro, imparando da lui e mantenendo l’adesione fedele alla sua persona. Il seguire esprime il dinamismo e la vitalità che caratterizzano la fede del discepolo. In tale dimensione si inserisce la forza liberante della parola come buona notizia, dal momento che è il suo contenuto ad innescare quel processo vitale di continua crescita. Nel suo scritto l’evangelista  ha già precisato quella capacità della Parola di far germinare la vita, come un seme che trovando il terreno adatto inizia quel movimento di progressiva maturazione, fino a raggiungere la sua pienezza (cf. Mc 4,26-29). Tutto il vangelo di Marco, come parola viva, è impregnato di una forza dirompente che rigenera a nuova vita. E il brano del tributo a Cesare, già ricordato, esprime con altrettanto vigore quella novità di un Dio che, a differenza dei “cesari”, non si fa pagare, né chiede nulla in cambio per manifestare la sua ricchezza. Egli è colui che crea e dona per amore, comunicando incessantemente vita alle sue creature. Un Dio da accogliere, non da cercare né da implorare, che chiede solo di essere riconosciuto come Padre. 

L’episodio del tributo al Cesare, che Marco colloca nell’ambito del tempio di Gerusalemme, è indicativo della sua teologia narrativa dove i personaggi agiscono in base a una concezione di Dio che determina le loro intenzioni e le loro azioni. Il modo di parlare di Dio dei dirigenti religiosi e di rapportarsi con Lui è impossibile da conciliare con la novità della “buona notizia”[1]. Essi cercano, infatti, in ogni modo di soffocarla, come dice l’evangelista introducendo il racconto: «Allora gli inviarono dei farisei e degli erodiani per prenderlo in trappola con una domanda» (Mc 12,13). Le mire omicide nei confronti di Gesù non si placano. Per i sommi sacerdoti e gli scribi, rappresentanti del potere della religione e della scienza, la denuncia che Gesù ha fatto del tempio come “covo di ladri” (Mc 11,18), dopo essere intervenuto scacciando venditori e compratori, rovesciando le tavole dei cambiavalute, è un reato punibile con la morte: «I capi dei sacerdoti e gli scribi udirono queste cose e cercavano il modo di farlo morire» (Mc 11,18). Il linguaggio della religione che presenta un Dio inaccessibile, avido di offerte e violento, è incompatibile con quello di Gesù, che parla di Dio come “buona notizia” (Mc 1,14), cioè come garante della vita e amante delle sue creature, alle quali indistintamente rivolge la sua benevolenza incondizionata, senza nulla chiedere in cambio. Per i capi religiosi questa “buona notizia” era inaccettabile, in quanto rendeva nulla la loro posizione come intermediari tra Dio e il popolo, togliendo ad essi prestigio e potere (CASTILLO, 2019, p.16)[2]. Per questo cercano di eliminare Gesù, in quanto la pericolosità del suo insegnamento metteva fortemente a rischio la validità della stessa istituzione che essi rappresentavano. Per questo sono loro ad intervenire in modo perfido, inviando dei farisei e degli erodiani[3] con l’intenzione di “prenderlo in trappola”, dimostrando tutta la loro avversione nei suoi confronti, come denota lo stesso verbo adoperato dall’evangelista, avgreu,w / intrappolare, usato in greco per “catturare animali selvatici” (MATEOS; CAMACHO, 2010, p. 169). 

 La trappola è ben congegnata, poiché chiedono a lui di pronunciarsi su una questione scottante come quella di dover pagare il tributo a Cesare, segno di totale sottomissione al potere di Roma. Qualunque sia la sua risposta essa avrà delle conseguenze negative. Il tentativo è di screditarlo dinanzi alla folla o di avere motivo per consegnarlo alle autorità romane. Farisei ed erodiani, che avevano già tenuto consiglio per decidere in che modo eliminare Gesù (Mc 3,6), dopo l’episodio della guarigione, in giorno di sabato, dell’uomo con la mano rinsecchita (cf. Mc 3,1-5), tornano di nuovo alla carica, questa volta non di loro iniziativa, ma a nome delle autorità religiose. 

L’evangelista evidenzia la complicità dei componenti dell’istituzione religiosa nel complotto che stanno tramando contro Gesù (FOCANT, 2015, p.479)[4], sottolineando come le dinamiche religiose possano essere così perverse da cercare coalizioni nell’ambito corrotto della politica, senza alcun tipo di scrupolo. Il progetto omicida si manifesta anche nell’uso del linguaggio, ossequioso ma falso, utilizzato dai farisei e dagli erodiani con la loro ipocrita adulazione pur di colpire chi è visto come un pericolo. Tuttavia essi fanno delle affermazioni su Gesù che dimostrano il valore della sua persona (sincerità, libertà, indipendenza nel giudicare, introspezione), che poi si ritorcerà contro di loro (LA GIOIA, 2019, p. 272)[5]. Costoro passano all’attacco con la domanda che prende come riferimento la Legge divina, cioè se sia conforme ad essa pagare il tributo ai Romani. La domanda è formulata in modo tale da mettere Gesù dinanzi a un bivio dal quale non può sottrarsi e la sua risposta dovrà essere a favore o contro il pagamento. Nel Decalogo il primo comandamento parla chiaro: «Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» (Dt 6,4). Non ci sono altri signori a cui rendere tributo alcuno, quindi pagando la tassa al Cesare si mantiene o no la fedeltà al Signore? Se si deve ubbidire alla Legge è ovvio che non si può accettare di pagare tributo all’imperatore, poiché ciò implica il riconoscimento di un potere incompatibile con la sovranità di Dio, segno, questo, di idolatria e apostasia. Ma il fatto che l’imposta esisteva confermava che i giudei accettavano il dominio romano, quindi tale pratica, condotta usando le monete con l’effigie dell’imperatore, li rendeva consapevoli della loro mancanza di libertà e di fedeltà. Per la mentalità religiosa e nazionalista del popolo, il Messia atteso doveva liberare dal giogo romano, ristabilendo la fedeltà all’unico Signore, il Dio d’Israele. Gesù, già acclamato come Messia davidico (Mc 11,9-10), deve rispondere: se lo fa affermativamente si attira il discredito della gente che ha posto in lui le attese messianiche, perdendo così la popolarità che la sua persona suscita; se invece la sua risposta è negativa, in linea con la posizione fanatica degli zeloti, scatta la denuncia come sovvertitore, quindi l’arresto da parte dei Romani. In ogni caso Gesù avrebbe fatto una brutta fine.

Marco dimostra la sua maestria nella narrazione riportando la domanda, ripetuta per ben due volte, degli avversari di Gesù, come se fossero dei veri attori: «è lecito, o no, pagare (dou/nai) il tributo a Cesare? Dobbiamo darlo (dw/men) o non darlo (dw/men)?». Il verbo “dare” (δίδωμι) è usato per tre volte, in modo da non lasciare alcuna via d’uscita se non la risposta affermativa o negativa. La doppia domanda dimostra che si tratta di prendere posizione non solo teoricamente, ma anche dal punto di vista pratico (FOCANT, 2015, p. 480). 

Gesù, avendo capito l’intenzione dei suoi interlocutori, non si lascia condizionare dal tono ossequioso con cui si sono rivolti a lui, né cade nella trappola che gli tendono, ma risponde a sua volta con una domanda. L’inganno ordito dai suoi avversari sarà l’occasione per mettere ancora più evidenza la loro falsità. Consapevole delle insidie, Gesù considera “ipocrita” il loro atteggiamento[6], una finzione degna di chi “opera” sulla scena. La falsità dei farisei e degli erodiani è proprio nel non farsi problema alcuno riguardo all’imposta, che pagano tranquillamente. Gli erodiani, in particolare, accettano volentieri l’amministrazione romana. La domanda con cui Gesù mette allo scoperto le cattive intenzioni dei suoi interlocutori, «Perché mi tentate?»[7], dimostra che egli «non guarda in faccia a nessuno», come gli è stato fatto notare, la sua sincerità si esprime nel saperli smascherare. Gesù fa loro capire che non cadrà nell’inganno e ne approfitta per dire come stanno veramente le cose. La tentazione per Gesù è quella di non perdere la sua immagine, conservando la fama e la popolarità di cui gode presso la gente, opponendosi così al dominio di Roma e dichiarandosi come sovversivo. 

Non rispondendo alle domande dei suoi interlocutori, Gesù devia l’attenzione sul fatto dell’imposta da pagare e va alla radice del problema, che riguarda l’affanno per il denaro e la connivenza con il potere, in quel caso di Roma. Egli chiede pertanto che gli venga portato un “denaro romano” (dhna,rion)[8]. Poi, dopo aver esaminato la moneta, rivolge loro una seconda domanda, alla quale non è possibile non rispondere. Farisei ed erodiani, partiti per attaccare Gesù con domande insidiose, sono ora loro a dover dare una risposta. Volevano tendere una trappola ma, come ricorda il salmista, ci sono cascati dentro[9]. Gesù li interroga sull’effigie raffigurata sulla moneta e sull’iscrizione (“Tiberio, Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto / Pontifex Maximus”). Chiedendo questo, sposta la questione non più sul tributo da pagare, bensì sul rapporto con l’imperatore, per cui usarne le monete - e i giudei le accettavano ben volentieri perché lucravano per i loro interessi -  significa riconoscerne la sovranità. Le monete servivano non solo per gli affari commerciali, ma anche per la propaganda politica. La risposta dei farisei, più che prevedibile, non si lascia attendere: «di Cesare». Gesù vuol far vedere come il potere dell’imperatore è basato sulla dipendenza economica, per cui accettare il denaro del Cesare significa riconoscere la sua sovranità e usufruire dei benefici legati al sistema economico dell’impero (CARTER, 2011, p. 21-25)[10]

La verifica che Gesù ha già fatto di tale sistema, secondo l’evangelista, è altamente negativa: «Voi sapete che quelli che figurano come capi delle nazioni le dominano e i loro grandi le sottomettono imponendo la loro autorità. Ma non è così tra di voi...» (Mc 10,42-43). Per Gesù anche i capi delle nazioni sono dei “figuranti”. Alla luce di tale constatazione arriva la risposta che i farisei e gli erodiani si attendevano, ma in un modo che non potevano immaginare: non si tratta di “pagare” / “dare”, bensì di “rendere” / “restituire”. Se il denaro appartiene a Cesare, come l’effigie e l’iscrizione dimostrano, bisogna restituirlo a lui, cioè rinunciare ai benefici che il sistema dell’impero genera, senza farsi coinvolgere in quelle dinamiche economiche che sono alla base di una forte disuguaglianza sociale e che fomentano ingiustizia e violenza. Viceversa, se si accetta di far parte di quel sistema poiché ciò che interessa sono i benefici legati ad esso in una logica di profitto, allora è più che giustificato dare il tributo a Cesare. 

La risposta, tuttavia, contiene un secondo ragionamento più importante ancora del primo e del tutto inaspettato: «e quel che è di Dio, (rendetelo) a Dio». Ciò che appartiene a Dio e che bisogna restituirgli è il suo popolo (cf. Es 15,16;Dt 32,6; Sal 72,4), del quale i rappresentanti dell’istituzione religiosa hanno il pieno controllo, sfruttandolo secondo i loro interessi. Dio considerava Israele come il popolo che Egli si era acquistato, ma ora gli è stato allontanato per colpa dei suoi dirigenti, che hanno fomentato ogni forma di ingiustizia, come Gesù ha appena prima ricordato nella parabola dei vignaioli omicidi (MATEOS; CAMACHO, Fernando. Il vangelo di Marco, vol. 3, p. 179). (MATEOS; CAMACHO, 2010, p. 179), rivolta proprio alle autorità religiose (Mc 12,1-12).

Il tema di fondo che l’evangelista sviluppa secondo la sua linea teologica è quello dell’infedeltà. I farisei si lamentano dalla presenza dei Romani e del loro dominio, ma i loro affari traevano beneficio da quell’occupazione. Allo stesso modo dicono di voler essere fedeli a Dio mediante l’osservanza dei precetti, ma tolgono vita al popolo imponendo le loro dottrine e pratiche religiose. L’infedeltà, quindi, non consiste nel pagare un tributo all’imperatore, ma nel rendere infelice la vita della gente. Lo stesso accade per i dirigenti, i rappresentanti dell’istituzione: ad essi interessa solo il guadagno per conservare la posizione privilegiata che detengono e approfittano dell’occupazione romana e del sistema economico imperiale. Come già aveva denunciato il profeta Isaia, Dio si attendeva diritto e giustizia, come frutti della sua presenza in mezzo al popolo, invece dilaga la violenza (cf. Is 5,7).

Gesù insegna con verità la “via di Dio”, quella del dono, della gratuità e della solidarietà condivisa. Il Dio di Gesù manifesta la sua generosità stabilendo con le sue creature una relazione di amore incondizionato. Chiedendo di restituire al Cesare la sua moneta, Gesù offre un’alternativa diversa di società e di rapporti umani basata appunto sulla gratuità. Il segno di Dio non è la moneta e neanche il precetto religioso, ma il pane condiviso, la fraternità universale del Regno (PIKAZA, 2012, p. 835). Per tale motivo a Dio deve essere restituito il suo popolo, rimasto ignaro della sua proposta di salvezza.

Certamente gli interlocutori di Gesù non si aspettavano una risposta del genere, restando sconcertati perché non si trattava quindi di “dare” / “pagare”, ma di “rendere” / “restituire”. In fondo il dominio dei Romani non era peggiore di quello che i dirigenti religiosi esercitavano nei confronti del popolo. L’ultima apparizione dei farisei nel vangelo di Marco si chiude con lo stupore di chi, volendo colpire Gesù, resta vittima della sua stessa perfidia e malvagità.

Rendere a Dio quel che è di Dio è il monito con il quale Gesù ricorda il valore della fedeltà al suo disegno di salvezza, riconoscendolo come fonte di ogni bene. Un Dio che è Padre, datore di vita, che non chiede ubbidienza a lui emanando dei precetti da osservare, ma somiglianza a lui accogliendo il suo Spirito. Pertanto solo nel suo nome si può comunicare vita agli altri, diventando così figli (Gv 1,12), quindi partecipi della sua stessa condizione divina. È nell’umano che Dio si manifesta, come Gesù, il Figlio amato (Mc 1,11) ha dimostrato con la sua persona e la sua parola. Rendere a Dio la sua umanità significa incarnarlo nella propria vita, nella sequela di Gesù, affinché possa mostrarsi la potenza del suo amore.  Questo comporta soprattutto, a livello ecclesiale e comunitario, un impegno deciso a favore della dignità e della felicità di ogni persona. 

In questa stessa linea gli studi realizzati da José María Castillo nella decade del duemiladieci sull’umanità e sull’umanizzazione di Dio (CASTILLO, 2010)[11], hanno aperto un nuovo varco non solo per la ricerca teologica e per la pastorale biblica, ma soprattutto, nell’ambito dei diritti umani, per la coscienza che la Chiesa come istituzione deve avere nel tutelare la libertà e il valore dell’essere umano. L’apporto fondamentale che José María Castillo ha dato alla teologia con la sua riflessione è stato riportare il vangelo di Gesù al centro della fede cristiana, richiamando la Chiesa a convertirsi ad esso. In particolare la “Chiesa-istituzione” deve liberarsi da quella impostazione dottrinale dove il sacro e la religione prevalgono sul vangelo stesso, in quanto ciò che importa è la  fede come sottomissione alla dottrina, agli insegnamenti del Magistero, all’osservanza di norme rituali imposte dalla liturgia. Il vangelo invece elogia una fede che non si limita alle verità rivelate, ma è attrazione, fiducia e identificazione con la persona di Gesù, in modo da mantenere sempre viva la sua sequela (CASTILLO, 2023, p. 58-59).

Il vangelo non tratta di dottrine ma di comportamenti, per questo la sua è una teologia narrativa, racconto dei fatti e dei detti di Gesù a favore di ultimi, malati, donne, stranieri e peccatori, occupandosi della sofferenza umana e lavorando per il bene dell’altro. Si comprende il vangelo solo come uno stile di vita dove si rivela l’umanizzazione del Dio trascendente e dove la sua creatura si “umanizza”. Per questo le parole di Castillo che chiudono la sua ultima pubblicazione del 2023 sono la testimonianza di una vita dedita alla buona notizia di Gesù e ai valori del Regno di Dio:

«Viviendo como viviò Jesús –en la medida en que sea posible- no solo humanizaremos este mundo tan deshumanizado, sino que además, y sobre todo, alcanzaremos nuestras más altas aspiraciones y el mundo será más habitable para todos los seres humanos» (CASTILLO, 2023, p. 240). 

Questa lealtà al vangelo, dimostrata portando avanti con dedizione i suoi studi e le sue ricerche in ambito teologico, lavorando come docente non solo in ambito accademico ma anche a livello comunitario con i suoi corsi di Teologia Popolare, impegnandosi a favore della Teologia della Liberazione[12] e della sua prassi  sulla giustizia sociale, José María Castillo la pagò di persona. La perdita della sua cattedra di teologia alla Facoltà Teologica di Granada nel 1988 e il ritiro della “Venia docendi” (permesso per poter insegnare nelle istituzioni della Chiesa) furono per lui un duro colpo, che lo porterà nel tempo a lasciare la Compagnia di Gesù, continuando la sua attività non solo come insegnante nell’Università Centroamericana a El Salvador, ma anche diffondendo il suo pensiero attraverso corsi e seminari di studio nell’Università di Granada, conferenze e successive pubblicazioni. La crisi che lo portò a lasciare la sua comunità ebbe poi risvolti inattesi e altamente positivi come il poter recarsi in Italia, accettando gli inviti del Centro Studi Biblici “G. Vannucci” di Montefano per giornate di studio e presentazione dei suoi libri. I suoi soggiorni al Centro Studi Biblici sono state occasioni uniche per consolidare l’amicizia fraterna con lui ed apprezzarne sempre di più la grandezza umana, approfondendo la ricchezza del suo pensiero e i frutti della sua ricerca. Nel suo vissuto restava sempre aperta quella ferita dell’essere stato allontanato dall’insegnamento accademico come docente di teologia alla Facoltà dei gesuiti di Granada, e nelle sue memorie confessava, così come ha avuto modo di dirmi direttamente negli ultimi anni della sua vita, del dolore di dover morire senza sapere il motivo per cui gli fu tolta la cattedra: 

«después de los cuarenta años transcurridos, este es el momento en el que desconozco por qué se tomaron determinadas decisiones sobre mí (incluso contra mí), que ni siquiera sé quién las tomó. Y mucho me temo, a estas alturas de mi vida, que me voy a ir de este mundo sin saber por qué me pasó todo aquello» (CASTILLO, 2023, p. 76-77).

Ovviamente la gerarchia ecclesiastica non condivideva il modo di insegnare e di diffondere il suo pensiero, così come Castillo non condivideva il modo di vivere di una “corporazione” che mantiene poteri e prerogative che altri non possono avere. È questa la divisione che, come egli affermava, frattura la Chiesa mettendo in contrasto lo zelo per la dottrina (religione) con il modo di vivere seguendo Gesù (vangelo), spostando il centro della fede cristiana: dal vangelo come sequela di Gesù all’ortodossia della dottrina come sottomissione al culto e alla liturgia (CASTILLO, 2023, p. 65-67).

Per tanto le tattiche di una Chiesa istituzione che non rispetta o tutela la dignità della persona sono in aperta opposizione al vangelo e alla persona di Gesù, per il quale il bene di ogni essere umano è superiore a qualunque norma o pratica religiosa. A questo riguardo la risposta di Gesù ai farisei ed erodiani «Rendete a Dio quel che è Dio» continua ad essere più attuale che mai: anche la Chiesa deve saper rendere a Dio quanto di umano e di liberante è stato fatto nel suo nome[13], ridando ai teologi e ai ricercatori cattolici, privati dall’insegnamento, la dignità dovuta, come ben ha scritto, prima della sua morte nel 2015 il teologo Ortensio da Spinetoli. Anche lui privato dell’insegnamento della teologia, in una lettera[14] a papa Francesco chiedeva di restituire a tutti i teologi censurati e segregati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede «quel tanto di dignità e rispetto loro dovuto e sempre negato»:

«Caro papa Francesco, 

[...] perché non pensare a un raduno dei «dispesi d’Israele», cioè di quanti nella chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo, non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche?Se questo straordinario raduno dovesse aver luogo, cominciando ovviamente con una solenne proclamazione di nomi di tutti i caduti sul fronte delle lotte di liberazione del penultimo e ultimo secolo… sarebbe un evento inatteso ma veramente profetico, sarebbe la sconfessione di un passato infelice, antievangelico, dittatoriale…»(CASTILLO, 2023, p. 65-67).

Bisogna saper riconoscere Dio nella sua umanità per manifestarlo nella vita con la potenza del suo amore, rendendo la libertà di quanti lo cercano e si impegnano nel far crescere il bene comune un diritto che deve essere a portata di tutti (CASTILLO, 2012, p. 345). Restituire a Dio quel che è di Dio significa, parafrasando José María Castillo, riconoscere che il centro assiale del cristianesimo si trova nell’evento dell’Incarnazione, ossia nell’umanizzazione di Dio. Riconoscere dunque che il Dio “trascendente” si manifesta nella nostra carne mediante la nostra adesione a Gesù, il Figlio di Dio, fa capire che non esiste principio né potere alcuno che pretendano limitare o condizionare ciò che è umano e nessuno potrà impedire mai che i diritti umani siano vissuti, difesi, rivendicati. Per il teologo e amico granadino tale postulato è stato il suo modo di essere: «Este criterio y esta manera de pensar ha sido el principio rector de mis convicciones, de mis creencias y de mi conducta» (CASTILLO, 2021, p. 79).

Riferimento

CASTILLO, José María. El evangelio marginado. Bilbao: Desclée De Brouwer. 2019.

GUNDRY, Robert H. Mark. A commentary on His Apology for the Cross. Grand Rapids: Eerdmans Publishing. 1993.

MATEOS, Juan; CAMACHO, Fernando. Il vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico. Vol. 3. Assisi: Cittadella Editrice. 2010.

FOCANT, Camille. Il vangelo secondo Marco. Assisi: Cittadella Ed. 2015.

LA GIOIA, Fabio. Marco. Analisi narrativa del Vangelo più antico. Tau editrice: Todi 2019. 

PIKAZA, Xabier. Evangelio de Marcos. La Buena Noticia de Jesús. Estella: Verbo Divino. 2012.

CASTILLO, José María. La humanización de Dios. Ensayo de Cristología. 2ͣ Edición: Madrid Trotta, 2010.

CASTILLO, José María. Memorias. Vida y pensamiento. Bilbao: Desclée De Brouwer, 2021.

CASTILLO, José María. Declive de la Religión y futuro del Evangelio. Bilbao: Desclée De Brouwer, 2023.

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Notas 

[1] I dirigenti religiosi “inviano” (avposte,llousin) i loro mandatari per intrappolare ed eliminare Gesù; Dio invece, come ricorda la figura del padrone nella parabola dei vignaioli (Mc 12,1-11), inviò (avpe,steilen) i suoi servi per mantenere viva la sua alleanza, cf. GUNDRY, Robert H. Mark. A commentary on His Apology for the Cross. Grand Rapids: Eerdmans Publishing 1993, p. 692.

[2] I gruppi religiosi ed osservanti del giudaismo del I secolo non sopportavano Gesù, poiché la sua persona e la sua parola erano una grave minaccia per la loro sussistenza, per tale motivo il “vangelo di Gesù” e la “religione dei sacerdoti”, come afferma J. Castillo, “sono incompatibili. 

[3] Tra questi due gruppi c’era una certa distanza, poiché i farisei erano contrari alla presenza del governo di Roma, che contaminava la terra d’Israele e umiliava il popolo imponendo il suo potere; gli erodiani, invece, essendo sostenitori della dinastia fondata da Erode il Grande, re illegittimo ma approvato dai Romani, mantenevano eccellenti relazioni con l’impero, collaborando nella sua gestione in Palestina, Cf. STEMBERGER, Günter. Farisei, sadducei, esseni. (Studi Biblici 105). Brescia: Paideia 1993, p. 144;   MEIER, John P. Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol 3 (Compagni e antagonisti). Brescia: Queriniana 2003, p. 602; STANDAERT, Benoît.  Marco. Vangelo di una notte, vangelo per la vita. Commentario (Mc 11,1-16,20), vol 3. Bologna: EDB 2011, p. 631. Si trattava quindi di una «delegazione composta da due fazioni opposte», DONHUE, John R. – HARRINGTON, Daniel J. Il vangelo di Marco. Leumann: Elledici 2006, p. 305.

[4] Cf. MOSSETTO, Francesco. Marco, nella sinfonia delle Scritture.   Brescia: Queriniana 2021, p. 194. 

[5] L’evangelista gioca narrativamente con una certa ironia, poiché gli avversari intendono colpire Gesù, ma in verità riconoscono le sue doti come maestro, cf. NAVARRO, Mercedes. Marcos. Estella: Verbo Divino, p. 436; LA GIOIA, Fabio. Marco. Analisi narrativa del Vangelo più antico. Tau editrice: Todi 2019, p. 272.

[6] Il termine “ipocrisia” (u`po,krisij ) significa “operato sulla scena”, ossia finzione, ed era usato nell’ambito del teatro per indicare gli attori che mettevano delle maschere per rappresentare i diversi ruoli. La religione stessa fomenta una messinscena che rende i suoi addetti dei veri teatranti, indossando una maschera che nasconde la loro identità e le loro intenzioni. Un antico detto rabbinico  diceva che a Gerusalemme si concentrava la più alta percentuale di ipocrisia, proprio per la presenza del Tempio del Signore: «al mondo ci sono dieci porzioni di ipocrisia: nove si trovano a Gerusalemme» (Est. Rab. I, 3-85b).  Mediante l’esibizione della propria pietà, scribi e farisei ricevono da Gesù la qualifica di “ipocrita” (u`pokrith.j), cioè commediante; quali professionisti del sacro essi formano “il teatrino della religione”, MAGGI, Alberto. Gesù ebreo per parte di madre. Il Cristo di Matteo. Assisi: Cittadella ed. 2007, pp. 59-61.

[7] È l’unica volta in cui Gesù adopera il verbo “tentare” nei confronti dei suoi avversari, smascherando le loro “diaboliche” mosse. Il verbo  tentare (peira,zw), è stato applicato dall’evangelista per la prima volta al Satana nel deserto (1,13), senza precisare però in cosa consistesse la tentazione. Ora si comprende il significato di quell’azione, in quanto sono i farisei ad incarnare lo stesso agire del Satana, presentandosi per tre volte nel ruolo di “tentatori” chiedendo un segno dal cielo (8,11), domandando se sia lecito ripudiare la moglie (10,2) e ora interrogando Gesù sulla questione del tributo al Cesare (12,15).

[8] Nel recinto sacro del tempio di Gerusalemme era proibito far circolare le monete romane con l’effigie dell’imperatore, poiché considerate blasfeme in quanto violavano la proibizione della Legge di riprodurre immagini; per questo c’erano i cambiavalute che le cambiavano con monete autorizzate.

[9]  «(L’empio) ha scavato una fossa e l’ha fatta profonda,

                      ma è caduto nella fossa che ha fatta...»   (Sal 7,5)

[10] La società dell’impero romano era fortemente gerarchizzata, con grandi disuguaglianze per quanto concerne l’uso del potere e il controllo della ricchezza. Una società ingiusta, divisa tra una piccola élite di privilegiati e la stragrande maggioranza di una popolazione che viveva in condizioni di forte disagio. Le possibilità di migliorare la propria condizione o di uscire dal gruppo di sottomessi erano molto scarse. Nonostante l’aristocrazia / élite di governo  fosse il 3 % della popolazione,  essa consumava il 65 % della produzione della terra e dei beni in generale; per incrementare la ricchezza bisognava sottomettere, sfruttare, fare violenza, cf. CARTER, Warren. El imperio romano y el Nuevo Testamento. Estella: Editorial Verbo Divino 2011, pp. 21-25.

[11] CASTILLO, José María, La humanización de Dios. Ensayo de Cristología. 2ͣ Edición. Trotta: Madrid 2010 (testo tradotto in italiano, L’umanizzazione di Dio. Bologna: EDB 2019); La humanidad de Dios. Madrid: Trotta 2012 (testo tradotto in italiano, L’umanità di Dio. Molfetta: La Meridiana 2014).

[12] «Fui siempre un seguidor entusiasta de la Teología de la Liberación, porque vi en ella, no solo la teología que más necesitaban los maltratados pueblos de de América Latina, sino además porque ha sido y es... el pensamiento teológico que ha tomado más en serio el mensaje central y determinante del Evangelio», CASTILLO, José María. Memorias. Vida y pensamiento. Desclée De Brouwer: Bilbao 2021, p. 158.

[13] La sentenza su ciò che deve essere reso a Dio significa anche «accogliere i suoi inviati e consegnargli i “frutti” che gli spettano (12,1ss)», MOSSETTO, Francesco. Marco, nella sinfonia delle Scritture, p.195.

[14] La lettera reca la data del 20 settembre 2013 ed è stata pubblicata in una sua opera postuma, cf. DA SPINETOLI, Ortensio. L’inutile fardello. L’insegnamento di uno straordinario teologo controcorrente. Milano: Chiarelettere 2017, pp. 69-74.